Per avere un'idea della situazione dell'economia italiana, ed in particolare di quella più esposta alla
concorrenza internazionale - vale a dire principalmente l'industria - aiuta l'osservazione di alcuni dati
forniti dal servizio statistico dell'Unione Europea relativi al calcolo del prodotto interno lordo delle
principali economie mondiali.
Alla fine del 2002 il pil degli Stati Uniti assommava a 11.000 miliardi di euro; l'Europa dei 15 poco
più di 9.000 miliardi; il Giappone 4.200, la Cina 1.300. L'Italia si situava allo stesso livello della Cina.
Queste cifre possono essere oggetto di diversa lettura: la più immediata è quella di vedere com'è
distribuita la ricchezza nel mondo: andiamo dai 38.300 euro di reddito annuo pro capite del cittadino
statunitense, ai 33.000 del giapponese, ai 24.000 del cittadino dell'Europa dei 15 (22.800 dell'italiano),
ai 1.000 euro del cinese. Ciò significa che l'11% della popolazione mondiale (USA più EU) produce
poco più del 60% della ricchezza mondiale. Equilibrio (o squilibrio?) difficilmente sostenibile nel
lungo periodo.
Un'altra considerazione da svolgere è quella di sfatare una sensazione comune, quella di una Cina
inarrestabilmente avviata a capeggiare in relativamente breve tempo la classifica mondiale. Oggi
questo avvicinamento è praticamente inavvertibile: se gli Usa continuano a viaggiare su un trend di
crescita del 4% annuo e la Cina nello stesso periodo aumenta il pil dell' 8 %, la nuova ricchezza
prodotta nei due Stati è praticamente la stessa, per cui le posizioni relative rimangono immutate.
Usa e Cina, almeno in questa fase, crescono nella stessa misura: come mai in Italia la crescita degli
Stati Uniti non è ritenuta pericolosa, nel mentre il “pericolo giallo” è sulla bocca di tutti? Perché
l'Italia, perdendo la sfida della modernizzazione, ha una struttura economica molto più simile alla Cina
che non a quella degli Stati Uniti, sempre più orientati alla terziarizzazione, spinti dalla ricerca militare
ed in grado di tradurre i risultati di questa ricerca nei settori produttivi rimasti, molti ad alta tecnologia.
Tagliata fuori dalla produzione in settori avanzati ( ci sono, e non poche fortunatamente le eccezioni,
ma è pur vero che in Italia non si produce un computer o un telefono cellulare) l'industria nazionale si
è avvalsa della straordinaria abilità dei nostri imprenditori nella gestione dei processi, meno (anche
qua le eccezioni non mancano, per fortuna, e sono riconosciute a livello internazionale) per
l'innovazione di prodotto. Inoltre la sensibilità della produzione italiana al costo del lavoro erode
continuamente le nostre posizioni sul mercato globale.
Posizionamento su settori maturi; sensibilità al costo del lavoro: è la fotografia della Cina di oggi,ed è
questa somiglianza all'economia di quel Paese che ce la porta come diretta concorrente. Metteteci in
più l'assoluta spregiudicatezza commerciale, coperta al 100% dal regime, e si capisce il rischio che
corriamo.
E' da ribadire peraltro che questa è la fotografia di oggi, ma che già domani verrà modificata, in
quanto la Cina si presenterà sui mercati con prodotti a più alto contenuto tecnologico. Le università
cinesi ed i centri di ricerca sono avanzate negli studi nel campo della biologia e dei materiali. Prodotti
che incorporano trattamenti legati alle nanotecnologie sono, ad esempio, già in commercio altri ne
vedremo tra poco. E l'India ha un modello molto simile a quello cinese.... L'Italia al contrario da anni
disinveste sul ricerca e sviluppo
In conclusione: è in corso un riposizionamento a livello mondiale delle varie economie, con un
tendenziale, ancora modesto riequilibrio della distribuzione dei redditi: la fase di espansione, in
sostanza, è colta meglio dalle economie emergenti e dagli USA che non dall'Europa, ed in particolare
dall'Italia. La ricetta della ricerca mirata e del trasferimento all'industria è valida, ma si realizza in cicli
lunghi: va perseguita senza illusioni.. La crisi del tessile e la necessità di spostare il settore a livelli di
più alta tecnologia andavano percepite ed affrontate cinque anni fa, non oggi: eppure la scadenza dei
dazi all'inizio del 2005 era conosciuta da più di un decennio...
Occorrerà soffrire, temo soffrire molto, nei prossimi anni e si potrà riprendere lo sviluppo
probabilmente con una minore dipendenza dalla produzione ad alta intensità di mano d'opera, con un
domanda pubblica intelligentemente di traino a settori innovativi, con una maggiore attenzione
a gestire il patrimonio artistico ed ambientale ed a monitorare l'offerta dei servizi connessi.
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