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 Anno I n° 10 del 10/11/2005    -   TERZA PAGINA


Zibaldone
Sebastiano Vassalli - LA NOTTE DELLA COMETA. Il romanzo di Dino Campana – Einaudi Tascabili
Dino Campana poeta pazzo o pazzo poeta?
Di Giacomo Nigro


Da pochi giorni ho finito di leggere un libro bellissimo, che Sebastiano Vassalli ha pubblicato addirittura nel 1984 e vorrei segnalarlo a chi – come me – avesse tardato a leggerlo. Sono grato all’iniziativa de “La Stampa” che, pubblicando settimanalmente qualche titolo dell’immenso catalogo Einaudi, m’ha permesso di conoscere questo piccolo grande libro. La notte della cometa ha come sottotitolo: Il romanzo di Dino Campana. Romanzo che si presenta sotto forma di biografia, ma in realtà non è neppure questo; è per me come il desiderio di racconto, di indagine che non si arrende alla necessità della “ricostruzione storica”. Senza sfuggire al dovere del documento, alla responsabilità di chiarire fatti ed episodi, Vassalli non è ostaggio della minuzia della sua indagine. Al contrario è quest’ultima al servizio di un vero atto creativo, perciò libero. Che Dino Campana sia esistito è un meraviglioso caso in cui Vassalli si imbatte e di cui in certo modo si innamora. Scrive l’autore in chiusa al suo lavoro:

Io cercavo un personaggio con certi particolari connotati. Il caso me l’ha fatto trovare nella realtà storica e da lì l’ho tirato fuori. Con accanimento, con scrupolo, con spirito di verità. […] Ma se anche Dino non fosse esistito, io ugualmente avrei scritto questa storia e avrei inventato quest’uomo meraviglioso e "mostruoso", ne sono assolutamente certo. L’avrei inventato così”. [pag. 239](1)
Non è questa una dichiarazione d’amore per la necessità della propria creazione? Così come quando diciamo al nostro amore: “Da sempre ti attendevo, sapevo che saresti stato così”…
Così Vassalli (che di Campana ha curato anche l’edizione delle Opere – Canti e altri versi e scritti sparsi, TEA 1989), prima raccoglie e studia tutto il conoscibile su questo grande poeta, quest’uomo spaventoso e affascinante, poi racconta e romanza, romanza poco e ci avverte sempre, esplicitamente quando lo fa. L’attribuzione della “pazzia” che, alla fine, ghermì davvero Campana a uno stadio avanzato di sifilide, non riconosciuta né curata, è l’unica – ma notevole e per taluni azzardata – ipotesi che l’autore si permette, esibendo tuttavia i dati su cui si basa.
Dal punto di vista formale l’adesione al genere biografico è totale, pochissime anticipazioni o variazioni sull’asse temporale, Vassalli non indulge a nessun vezzo, non ha nessun timore di “annoiare” il lettore, perché sta raccontando una tragedia greca: Dino ne è il protagonista, la sua “pazzia” l’antagonista, i concittadini di Marradi un vero e proprio coro persecutorio di cui gli intellettuali del tempo (i vari Papini, Prezzolini, Soffici, Marinetti, Carrà e compagnia bella) sono le spine più appuntite… La famiglia (il padre, la madre, gli zii), i notabili cittadini e le Autorità sono invece un vero Olimpo onnipotente, attraversato da mutevoli alleanze tra divinità che si accaniscono sulla vita di Campana, con diversi gradi di cattiveria o di transitoria benevolenza. Vassalli avanza in questa sua appassionata storia per brevi, secchi capitoli, che riportano documenti, testimonianze, stralci di lettere, poesie, prose di Dino stesso. Lo sguardo è tutto esterno, non esistono incursioni nell’intimo del poeta, induzioni su sentimenti, emozioni che lo sguardo di un “altro” – se qualcuno fosse stato presente – non avrebbe potuto cogliere. E questa mi pare la vera bellezza nel libro di Vassalli: restituire un uomo, la sua mente, il suo corpo martoriato, la sua parabola di poeta, la sua lotta con la società in cui visse, con la chiusura delle avanguardie intellettuali che cercò di forzare. Tutto questo ci è restituito con uno sguardo terzo, con un occhio attento che non si concede mai di immaginare un “dietro le quinte”. Come una tragedia greca, il dramma è sempre presente sulla scena, nei gesti e nelle parole degli attori e del coro.
E chi fu allora Campana: un uomo, un poeta disgraziato? Lui che diceva: “Essere un grande artista non significa nulla: essere un puro artista, ecco ciò che importa”. Conclude così Vassalli:

IL grande poeta – dice Dino – è un uomo che vive tutt’intorno nel suo presente e lì finisce: come Papini o D’Annunzio. Non ha contemporanei sparpagliati in tutte le epoche, non ha dialogo con chi è già passato e con chi ancora deve nascere. La sua ombra non è ‘ombra di eternità’. È un uomo, in fondo, normale; uno che diventa grande poeta come un altro diventa Direttore della Cassa di Risparmio, con un poco di applicazione, un poco di talento, un poco di circostanze favorevoli. […] Ma nel pensiero di Dino c’è un futuro in cui l’umanità avrà finalmente capito che la poesia può giovarle soltanto a una condizione: d’essere fuori del tempo e dei suoi traffici. Un ponte sull’infinito, un messaggio lasciato a chi non c’è da chi non torna più indietro…(1)

Nella sua rubrica "Esame di giornalismo", divertente rassegna di stramberie e "bufale" giornalistiche pubblicata sulla rivista Sette, Giulio Nascimbeni annotò testualmente: "Tempi duri (sui giornali) per i poeti. Il Resto del Carlino annuncia che, in occasione del premio Guidarello, si terrà un incontro sulla 'Ravenna dei poeti' dedicato a Guido Campana. Ma Campana, l'autore dei Canti orfici, si chiamava Dino”. E anche Nascimbeni non ne esce del tutto indenne, il titolo esatto del capolavoro di Campana non è, infatti, Canti orfici ma Canti Orfici, come l'autore stesso si era tante volte incaponito nel segnalare al suo primo editore, il tipografo Ravagli di Marradi, cui aveva commissionato (a sue spese ed a spese di qualche marradese dalla coscienza sporca) la stampa di mille copie dell'opera, pretendendo per contratto che il titolo venisse stampato con entrambe le lettere iniziali in maiuscolo. Questa leggerissima ma decisiva differenza tipografica ci spiega definitivamente la storia di Dino Campana piena di tragici equivoci umani e letterari.

Dino Campana consegnò l'opera della sua vita, compilata in un'unica copia. a Giovanni Papini per valutarne un'eventuale pubblicazione. Giovanni Papini passò il manoscritto de "Il più lungo giorno" ad Ardengo Soffici, condirettore della rivista "Lacerba", che lo smarrì in un trasloco.
Il Poeta ne fu deluso, disperato, arrabbiato. La frenesia di realizzare il suo sogno di poeta lo portò in pochissimi mesi, con la rielaborazione mnemonica e con fogli sparsi, ad una realizzazione più evoluta della sua prima opera: i "Canti Orfici". Marradi, paese natale, è un fazzoletto di terra in provincia di Firenze, al confine con la Romagna. Qui, come abbiamo già visto, il diritto di persona gli fu negato ben presto dall’incomprensione familiare, dall’educazione repressiva del collegio, da un vizio di poeta che non si adatta alle regole del mondo, che travolge ciò che incontra, come la piena di un fiume. Tutto questo lo portò, ribelle e disperato, a fughe, ritorni, viaggi, illusioni, chimere, prostitute, visioni deliranti, ricoveri nei manicomi.
Durante la prima guerra mondiale Dino incontrò Sibilla Aleramo (2) che con lui iniziò una relazione complessa e tormentata. Ella lo amò per il suo talento, per la verità che le ispirava, incapace, alla fine, di contenere tanto dolore. L’amore nei poeti è linfa vitale, per la natura, per la donna, per il cosmo, per lui è stata fame divorante.
Campana fu riconosciuto poeta dopo l’internamento definitivo in manicomio e sopratutto dopo la morte. Dalla sua follia di poeta emergono visioni notturne, di un giorno che precipita rapidamente nella malinconia della sera, nel tremore notturno, nel buio dello spirito. (3)
La purezza deriva a Campana da un’infantile, mancata mediazione con la realtà che lo circonda. Il solo strumento è la parola, incompresa, rigettata, nascosta (il manoscritto smarrito, i suoi versi ricomparsi in una soffitta nel 1971) che rimane incontaminata proprio perché non usata, non sfruttata. Perla di un’ostrica che il fato ha voluto isolare, rinchiudere. La poesia non tollera reclusioni, il canto è liberazione dagli affanni, è desiderio, è sogno, ricordanza, avvenire che fluisce e allora la parola costretta al silenzio di Dino Campana, si sprigiona e s’innalza come urlo, come lama, come luna elettrica, come pura energia poetica.
La poesia si svolge in un "eterno presente", incapace di storicizzare la vita interiore, il Poeta, dal primo all’ultimo verso, rivela un’eguale grandezza e tensione. Le esperienze non riescono a collocarsi, a integrarsi sopra un fondale certo e sicuro, sono vissute separatamente, come lampi di luce, schegge di dolore. I frammenti della poetica sono intessuti, tenuti insieme dal sublime linguaggio, quasi forza primigenia che li contiene, con armonia. (4)


Note:
(1) Sebastiano Vassalli, La notte della cometa. Il romanzo di Dino Campana, Einaudi Tascabili.
(2) Dino Campana per Sibilla Aleramo:

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io
non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime
facevamo le rose
Che brillavano un momento
al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite
sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose..
.

     Dino Campana, Inediti.

(3) O poesia poesia poesia
Sorgi, sorgi, sorgi
Su dalla febbre elettrica del selciato notturno.
Sfrenati dalle elastiche silhouettes equivoche
Guizza nello scatto e nell’urlo improvviso
Sopra l’anonima fucileria monotona
Delle voci instancabili come i flutti
Stride la troia perversa al quadrivio
Poiché l’elegantone le rubò il cagnolino
Saltella una cocotte cavalletta
Da un marciapiede a un altro tutta verde
E scortica le mie midolla il raschio ferrigno del tram
Silenzio – un gesto fulmineo
Ha generato una pioggia di stelle
Da un fianco che piega e rovina sotto il colpo
prestigioso
In un mantello di sangue vellutato occhieggiante
Silenzio ancora. Commenta secco
E sordo un revolver che annuncia
E chiude un altro destino
.
Stia, 20 Settembre


(4) Nell’albergo un vecchio milanese cavaliere parla dei suoi amori lontani a una signora dai capelli bianchi e dal viso di bambina. Lei calma gli spiega le stranezze del cuore: lui ancora stupisce e si affanna: qua nell’antico paese chiuso dai boschi. Ho lasciato Castagno: ho salito la Falterona lentamente seguendo il corso del torrente rubesto: ho riposato nella limpidezza angelica dell’alta montagna addolcita di toni cupi per la pioggia recente, ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi che mi facevano sognare davanti alle colline dei quadri antichi. Ho sostato nelle case di Campigna. Son sceso per interminabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso, un castello isolato e lontano: e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo e di oblio. Al di fuori si è fatta la quiete; il colloquio fraterno del cavaliere continua:

Comme deux ennemis rompus
Que leur haine ne soutient plus
Et qui laissent tomber leurs armes!



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