REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N 8
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 Anno I n° 11 del 24/11/2005    -   LENTE DI INGRADIMENTO


Episodi dalle vicende di un somaro testardo e caparbio
Divorzio: un biglietto di sola andata per l’inferno
Quando non si è pronti ai sacrifici che il matrimonio richiede, l’unione si trasforma in cattiveria, la dignità di un uomo viene ferita e la vita lascia lividi che è impossibile cancellare
Di A.K.


Il mio matrimonio è finito praticamente cinque anni fa.
Non è semplice raccontare le fasi che portano una coppia a non essere più coppia, a distruggere il senso del loro essere coppia per ridursi ad essere due schegge impazzite che si colpiscono, si fanno del male e fanno del male. Riportare oggi alla mente tutti quegli episodi equivale ad accorgermi che una ferita non si è ancora del tutto rimarginata, che ciò che ho voluto insabbiare per sopravvivere alle ceneri di me stesso non si è ancora decomposto, che non si è ancora assopito quel magma disordinato che mi portò tanti anni fa a cercare aiuto in uno psichiatra che non ebbe altro da dirmi se non che non avevo bisogno di lui, che solo il tempo poteva aiutarmi perché il mio era esclusivamente un enorme, incalcolabile dolore. Ricordare oggi, col senno di poi, un percorso di vicende che trasformano l’amore in odio, rabbia, rancore, volontà di colpirsi a vicenda e di distruggersi il più in fretta possibile, non fa altro che acuire l’amarezza di constatare le miserie umane, le meschinità quotidiane. Sebbene, devo essere onesto, col senno di poi forse non potrò mai parlare: l’umiliazione non si dimentica, i lividi della vita non se ne vanno, e tanto più questo accade quando si resta condannati ed incatenati e non ci si può più liberare dagli sguardi, dalle mezze parole di chi ancora cerca in tutti i modi di procurare male, dalle accuse urlate con cieca e gratuita cattiveria, inestinguibile astio, implacabile ricerca di rivalsa.
Oggi un matrimonio nasce e muore con una rapidità che ricalca l’alienante freneticità della vita.
Ma che nessuno osi credere che il divorzio autorizzi le coppie a sfaldarsi, che sia un immediato escamotage per liberarsi dalle incombenze di un matrimonio che non conosce lo spirito di sacrificio: prima di arrivare ad una tale decisione di sacrifici se ne fanno tanti, troppi, alle rinunce si è costretti oltre misura, e si ingoiano duri colpi ogni giorno per tenere in vita un rapporto e anche quando langue senza rimedio e boccheggia si tenta curarlo, persino di guarirlo o addirittura ci si sforza di resuscitarlo. Mai si ha fretta di seppellirlo, mai questa è una strada indolore. Una volta qualcuno scrisse di obblighi, scomodità, assolutezze e tirannie dell’amore che non sono nulla a confronto con gli obblighi, le scomodità, le assolutezze e le tirannie del matrimonio che ad ogni modo ti adegui a sopportare, non ti accorgi di sopportare anche quando lei cambia all’improvviso, anche quando ti si rivela opportunista ed egoista, persino bugiarda, persino traditrice. Non te ne accorgi perché i tuoi sacrifici servono a tenere in piedi una famiglia, a proteggere i tuoi figli.
Ma, ribadisco, nulla è semplificabile e se oggi dovessi spiegare perché io e la mia ex moglie ci siamo dati a vicenda feroce battaglia mi verrebbero in mente talmente tanti di quei motivi che faccio fatica a mettervi ordine. Ad essere sincero presumo che il nostro matrimonio poteva e potrebbe essere tuttora regolarmente annullato perché lei non era nelle condizioni di potersi sposare e, allora, in qualche modo mi ingannò. La conobbi per caso circa due anni prima del matrimonio, faceva parte di una comitiva che frequentavo e fu lei a farmi le prime proposte. Sebbene non si trattasse di un amore folgorante, di un’attrazione fatale, tuttavia allora ci credemmo innamorati. Oggi, a dire il vero, non saprei ancora dire se lei fosse innamorata davvero di me o del mio essere un “buon partito” nella Sicilia dei buoni partiti. In fondo ero laureato, avevo da poco terminato la mia carriera militare e mi davo da fare con lavori che potessero soddisfarmi sul piano professionale ma anche sul piano economico e con la cura di diversi progetti, ma soprattutto ero la sua occasione per fuggire da una situazione familiare opprimente. I suoi genitori erano divorziati, lei non aveva mai conosciuto suo padre e fui io il primo ad indurla al riavvicinamento quando non eravamo ancora sposati, ma cosa ancor peggiore era affetta dalla nascita da un angioma cerebrale, da gravi disturbi ormonali e soprattutto dal trauma di molestie sessuali da parte dello zio. Naturalmente, vide in me la sua salvezza. Quando, influenzata dal recente matrimonio della sorella, mi propose di sposarci, esitai molto ad accondiscendere alla sua richiesta a causa di condizioni economiche che allora non erano delle migliori. Ma fummo d’accordo nella volontà di affrontare insieme i sacrifici necessari, anche senza l’aiuto dei suoi genitori e dei miei, sebbene a modo loro intervennero con proposte talvolta talmente assurde da risultarmi francamente inaccettabili. Ma forse lei non aveva compreso esattamente il valore di un matrimonio: aveva appena ventuno anni e probabilmente non era abituata né portata né motivata a fare dei sacrifici proprio perché a lei mancava –e non poteva essere altrimenti- il senso della famiglia. Questo determinò da subito i primi contrasti: dopo un viaggio di nozze cambiato all’ultimo momento per colpa sua (dimenticò il passaporto), sempre per colpa sua fui costretto a rinunciare al lavoro fuori sede che inizialmente lei stessa aveva condiviso e dovetti accettare un lavoro vicino casa trovato per intercessione di una sua amica. Lì non iniziarono solo i primi diverbi, ma anche un cambiamento radicale sul piano caratteriale ed umano, un esasperato egocentrismo e anche una già determinata aggressività, una manifestata insofferenza alla vita casalinga che sfogava standosene perennemente in giro con l’automobile che le lasciavo, e infine un drammatico blocco sessuale, dovuto senza dubbio alla sua infanzia, che assicurava di essere in grado si superare dopo il matrimonio o che pensava di poter risolvere senza mai fare ricorso ad uno psicoterapeuta, ma che infine non risolse mai definendo tra noi una frattura a suo modo decisiva. Ma immediatamente dopo il matrimonio rimase incinta del nostro primo figlio e questo senza dubbio ci spinse a concentrare l’attenzione su un progetto comune, a cercare una casa più grande, ad impegnarci in sacrifici maggiori. Lei ad ogni modo era molto giovane e, lavorando a contatto con persone e trovandosi a confrontarsi con amiche della sua stessa età, si accorgeva di quegli obblighi del matrimonio che le richiedevano la rinuncia al divertimento e l’impegno verso la famiglia. Così io lavoravo con orari folli e cercavo per me solo il tempo di dormire, circostanza determinata dalla difficoltà tipicamente siciliana di trovare un lavoro adeguato, e lo facevo naturalmente per lei e per nostro figlio, ma nel frattempo lei cominciò ad uscire da sola e a rimproverarmi disattenzione. Ad ogni modo pochi anni dopo nacque anche il nostro secondo figlio, con un problema di salute che ci costrinse a trascorrere parecchi mesi nella più assoluta cautela, circostanza che aggiunse senso di oppressione al già forte stress e che si sommò a sua volta ai suoi problemi di salute dovuti a quella patologia da cui era da sempre stata affetta.
Da lì in avanti la situazione del nostro matrimonio si intorbidò oltremodo. La vita, insomma, fece il suo lavoro.
Da un lato più di un inaspettato ed inopportuno imprevisto finanziario (tra cui il mancato rimborso da parte di un’assicurazione per un sinistro subito –per errore del giudice- e il furto di un’automobile) andò a gravare pesantemente sulla serenità familiare, anche perché fui costretto a chiedere un aiuto economico a mio padre e questo mi scatenò contro la mia intera famiglia, a cominciare dalle mie sorelle e da mia madre che iniziarono la loro azione di mobbing nei miei confronti considerandomi un buono a nulla, uno sfaticato che non voleva lavorare (per la cronaca ho sempre aiutato mio padre sin dalla più tenera età e mi sono mantenuto gli studi da solo). Mia moglie si trovò imbrigliata nelle maglie abilmente intrecciate da mia madre per accattivarsi la sua fiducia nel tentativo di agire su di me per le sue mire nell’amministrazione del patrimonio di famiglia visto il mio atteggiamento giustamente ostico e bellicoso nei confronti delle ingiustizie e il carattere remissivo di mio padre, che lasciava fare. Così entrambe, non riuscendo nei loro intenti, iniziarono un meticoloso lavoro ai fianchi tentando di distruggere –e riuscendoci in gran parte- la mia reputazione tanto all’interno quanto all’esterno della famiglia stessa: dovevano creare il mostro. Sull’altro fronte intanto “la signora” decise di provare a risolvere il suo problema con l’angioma a Milano e non ci fu modo di convincerla a rimandare a quando il bimbo fosse cresciuto un po’ al fine, oltre che di attendere condizioni economiche migliori, anche di evitare i numerosi problemi pratici e logistici che sarebbero nati e che di fatti nacquero: i viaggi crearono disagi di cui io naturalmente fui incolpato (con le solite accuse sul profilo economico). L’intervento, tra l’altro, si rese necessario dal fatto che, a seguito di un incidente stradale, il suo angioma fu attivato e si dovette agire in più sedute con bombardamento di gamma-knife che la bloccarono a letto semiparalizzata sul lato destro per gli effetti delle radiazioni sul sistema nervoso. In quella occasione decisi con il pieno consenso dei medici, di riportarla a casa prima che sorgessero questi problemi post-trattamento, perché avevo anche due figli di cui occuparmi e questo, tra l’altro, mi valse successivamente l’accusa falsa di averla sottratta alle cure ospedaliere –firmando io la cartella clinica- senza che i medici fossero effettivamente favorevoli.
Insomma il rapporto era ormai appeso ad un filo. Un processo psicologico micidiale la indusse a focalizzare su di me, in quanto figura maschile, la responsabilità e la colpa di tutto ciò che aveva trascorso e subito dalla sua infanzia fino a quel momento. Per questo cominciò a scaricarmi contro ogni tipo di accusa e divenne sempre più aggressiva anche fisicamente nei miei confronti e io, nel tentativo di bloccarla e di calmarla, le dovetti lasciare più volte qualche livido che fu la scusa immediata per aggiungere un tassello alla creazione del mostro: non esitò ad impietosire tutti e a crearmi intorno terra bruciata. E fu lei, contro le indicazioni precise dei medici, a ricominciare a bere, a fumare, a drogarsi di caffè fino a svenire sotto il solo cocente dell’agosto siciliano (eravamo nell’estate ’99 che fu particolarmente torrida). E se quando finì in ospedale io mi preoccupai di avere innanzitutto notizie dei bambini (che sapevo essere con lei) prima che sue, dal momento che già in passato aveva subito gravi incidenti stradali anche autonomi, tutti gli altri non persero tempo a tacciarmi di disinteresse. Quelli furono i momenti decisivi della nostra rottura: tra l’altro le sue esperienze familiari e la sua frequentazione in ambiente lavorativo di persone separate la portò senza grandi complicazioni a decidere per il divorzio, per la fine di quel matrimonio a cui evidentemente non era mai stata pronta ed adatta.
A quel punto, chiaramente, il mostro era già creato. Bisognava soltanto delinearne i contorni, sottolinearli, aggravarli. Mia moglie lo faceva per impietosire, quelli che si lasciavano impietosire lo facevano a loro volta per logica conseguenza, mia madre lo faceva per colpirmi e punirmi del mio perenne rifiuto di adattarmi alle sue imposizioni e quelli che le credevano lo facevano perché se certe cose erano dette da mia madre non potevano che essere vere. Così mi ritrovai senza una casa, senza un lavoro, senza un mezzo, senza una famiglia, quel che è peggio senza i miei figli, cosa che fu per lungo tempo la tortura più cattiva senza che nessuno riuscisse a capirlo. Venivo accusato di aver picchiato mia moglie, finii più volte in un commissariato di polizia con le più svariate e deliranti accuse, persino quella di tentato omicidio nei confronti del suo avvocato che era stato abilmente persuaso della sua versione dei fatti. Potrei continuare, ma non ha più molto senso. Alla fine ci fu il divorzio e io ottenni di vedere spesso i miei figli.
Poi, alla fine, la verità viene sempre a galla, in qualche modo.
Ma, alla fine, niente si placa.
Perché la gente non dimentica i marchi a fuoco che ti hanno messo in fronte e te li porti dietro per tutta una vita. Sono poche le persone che conoscono te veramente o che, pur non conoscendoti, accettano di non andar dietro alle dicerie messe in giro, ma di imparare piuttosto a capirti per quello che sei. Ma ciò che fa più male è che ad arrecarti tanto dolore siano state le persone che credevi più vicine, quelle a cui credevi di più, su cui avevi investito di più. Ti hanno distrutto e dopo che ti hanno distrutto hanno speculato sui rimasugli di te, si sono spartiti quello che restava. Ed è un dolore micidiale, un dolore che non si cancella, un dolore che non si può nemmeno dimenticare. Perché ancora oggi mi trovo a dover sopportare le accuse di mia madre che persevera nel dire che non mi occupo dei miei figli quando io faccio per loro tutto quello che posso. Quotidianamente ricevo colpi bassi. Non è sufficiente dover subire impotente la sofferenza di non potermi occupare di loro come vorrei, di vederli crescere ad una certa distanza senza poter influire in quello che stanno diventando, senza avere il tempo di insegnar loro tutto quello che vorrei spiegare, mostrare, condividere con loro, senza poter contrastare con le strategiche manovre di cattiveria della loro madre e della loro nonna che hanno ogni interesse a continuare con le solite azioni di attacco. Ne fanno vergognosamente il loro strumento per attaccare me, per convincere anche loro che io sono quel mostro che hanno dipinto con tanta scrupolosità, che tuttora dipingono e che non si stancano di dipingere pur di farmi del male. Sono sempre stato scomodo, soprattutto nella mia famiglia, soprattutto per mia madre, e questo è il prezzo che ho dovuto pagare, che sto pagando. Questi non sono colpi che si ammortizzano, bocconi amari che si metabolizzano, ferite che si cicatrizzano. E anche se si cicatrizzano, si cicatrizzano poco, si cicatrizzano male, si riaprono ogni volta.
Sono sopravvissuto, in qualche modo, miracolosamente, pressoché indenne. Ma sono la testimonianza vivente di come un matrimonio che finisce sia sempre un dramma: un dramma che mi ha cambiato la vita da un giorno all’altro, che mi ha gettato nella polvere, che mi ha ridotto a polvere. E se da essa sono stato capace di risorgere comunque sono cambiato dentro irrimediabilmente. Da persona abbandonata, sono stato costretto a reinventarmi dal nulla una vita, una quotidianità, una normalità. Da persona tradita, sono diffidente e sospettoso nei confronti del mondo. Da persona ferita che ha sanguinato sotto la lama affilata del destino ma soprattutto sotto le lame arrugginite degli uomini che trafiggono e infettano e crudelmente vorrebbero uccidere, sono stato costretto a costruirmi una corazza di difesa che mi renda se non imperturbabile quantomeno inattaccabile. Da persona che comunque non conosce e non conoscerà mai la rassegnazione, sarò costretto a chiedermi quotidianamente ed incessantemente il perché della cattiveria gratuita. Da persona che, dopo essersi ripreso sé stesso ed aver provato ad andare avanti, è stato di nuovo tradito e di nuovo ferito, ho imparato a guardare oltre le apparenze e a schivare, per quanto possibile, i colpi della vita stessa. Da persona che è stata spedita all’inferno con un biglietto di sola andata ed è tornato con la forza delle sue sole gambe, sono stato temprato al punto da non temere più nulla per me stesso, da non avere più nulla da perdere.
Ma, se è vero come è vero che dalle ceneri risorge anche la speranza, so anche voltare pagina, so che la vita continua, so che è legittimo concedermi un’altra possibilità.



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