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 Anno I n° 12 del 08/12/2005    -   LENTE DI INGRADIMENTO


Letteratura
Scrivere è un Labirinto?
I nomi che subito vengono in mente, parlando di labirinti, sono Kafka e Calvino, ma tutta la letteratura è un ‘labirinto”, forse anche Petrarca....
Di Marina Minasola


Cosa c’è di più “labirintico” della letteratura? Chi, leggendo qualsiasi libro degno di nota, riesce a non perdersi tra le pagine, a non rimanere intrappolato dal fascino delle parole? Tutta la letteratura è un labirinto più o meno esplicito. La fantasia è un labirinto, la mente dei grandi scrittori è un labirinto... e i loro libri sono espressione di tutto questo. E’ impossibile nella Letteratura (quella con la L maiuscola!) trovare sentieri lineari di interpretazione, non riscontrare nessuna contraddizione di sorta, non avere dubbi, non trovare doppi, tripli, quadrupli significati. I grandi autori generalmente sono grandi proprio perché vedono le mille sfaccettature della realtà che sfuggono agli occhi di noi non-artisti, hanno personalità problematiche, più sensibilità, non si accontentano di una sola realtà... vedono essa stessa come un labirinto costituito da tante piccole verità. Spesso poi con i loro libri si rifugiano in altri labirinti creati dalla fantasia, rifugi che li fanno sentire almeno per un pò più protetti.

A partire dalla fine degli anni Cinquanta per molti scrittori italiani il labirinto nel quale si trovano intrappolati è la società attuale: sono gli anni del boom economico e della definitiva trasformazione della società italiana in società fortemente industrializzata.
Lo sviluppo massiccio dell’industria editoriale viene a coincidere con una situazione letteraria caratterizzata dall'esaurimento della fase neo-realistica, dal ritorno alle tematiche intimistiche e neo-crepuscolari e da un rifiuto della storia come oggetto di ispirazione e rappresentazione (Tomasi, Bassani, Cassola, ecc.).
Assistiamo parallelamente alla nascita della cosiddetta neo-avanguardia: la via d’uscita dal labirinto della comunicazione di massa, del consumismo, del diffondersi della povertà di linguaggio porta gli scrittori di questa corrente al rifiuto dell'ideologia come chiave interpretativa della realtà. La realtà nell'arte della neo-avanguardia deve essere recuperata attraverso un'operazione essenzialmente affidata al linguaggio: un linguaggio contrapposto a quello dei mass-media, ormai irrimediabilmente logoro ed incapace di farsi portatore di significati autentici e di reale comunicazione fra gli uomini. Con il linguaggio di cui dispongono, gli artisti contemporanei non potranno far altro che comunicare “la negazione della comunicazione esistente” (A. Guglielmi), ovvero compiere una mimesi diretta del caos, cioè una riproduzione immediata ed enfatizzata della mancanza di significato, dell' inautenticità della comunicazione normale: o riproducendo la comunicazione quotidiana, solo apparentemente dotata di significato, di cui si evidenzia la banalità, si svela l'insignificanza, o fornendone un equivalente provocatorio, un coacervo di parole preso poco meno che a caso. Asintattismo, asemanticità, parole in libertà, parole casualmente radunate e disposte sulla pagina, reperti del mondo della comunicazione, pratica del nonsense, uso ludico del significante, rifiuto del significato, la negazione di ogni possibilità di comunicazione se non della "comunicazione della non comunicazione" (sino al silenzio e alla denuncia della morte dell'arte), il ridurre la rappresentazione del caos del linguaggio e della realtà a gioco intellettuale, a puro e semplice divertissement, sono tra le soluzioni formali più radicali adottate da molti esponenti di questo movimento. Questi autori di “labirinti di parole” nel 1963 si riuniscono a Palermo e si organizzano in corrente, autodefinendosi Gruppo 63: la loro arte si fonda sul rifiuto dell'ideologismo come sul rifiuto dell'intimismo. Si richiamano alle poetiche sperimentalistiche delle avanguardie storiche. Facevano parte del Gruppo Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta. I critici Luciano Anceschi e Umberto Eco , Angelo e Guido Guglielmi, Renato Barilli, Enrico Filippini.

Ma per Italo Calvino la strada percorsa dalle neo-avanguardie non era quella giusta per uscire dal “labirinto” della società moderna. Infatti è proprio alla “neoavanguardistica” mimesi del caos, al naufragio nel mare dell'oggettività, al perdersi nei labirinti del mondo moderno senza cercare una via d'uscita che il celebre scrittore dedica alcuni interventi memorabili: Il mare dell’oggettività, edito con la rivista “il menabò” nel 1958, ed il saggio La sfida al labirinto, pubblicato sempre con “il Menabò” nel 1962. In particolare in quest’ultimo Calvino individua come immagine simbolo della realtà (spaziale, temporale, economica, culturale, ecc.) quella del labirinto. Questo edificio, caratterizzato da un intrico di stanze e corridoi, rappresenta infatti perfettamente la complessità e la magmaticità del mondo contemporaneo. La reazione degli individui che prendono coscienza di questa realtà si manifesta in due opposti atteggiamenti: la "resa al labirinto" e la "sfida al labirinto". Il primo caratterizza sia coloro che vivono la problematicità del reale come l’unica condizione possibile, arrivando a provare una sorta di compiacimento per l’impossibilità di comprenderlo e controllarlo, sia coloro che , fingendo che il labirinto non esista, ne restano fuori, rifiutando il confronto con qualsiasi difficoltà. Il secondo atteggiamento, quello di "sfida", consiste nell’assumere un ruolo attivo all’interno del labirinto, cercando di analizzarlo razionalmente. E’ quest’ultimo che Calvino ritiene più opportuno e utile e che, secondo lo scrittore, deve caratterizzare l’attività letteraria. E’ necessario sottolineare, tuttavia, che la "sfida al labirinto" non presuppone necessariamente una vittoria. Qualunque via d’uscita rintracciata, infatti, non rappresenta altro che la via d’accesso ad un nuovo labirinto; non è possibile eliminare la magmaticità del reale, ma ciò non preclude la possibilità di affrontarla attivamente. Quello di Calvino è un ragionamento assolutamente razionale, per lui al caos non va contrapposta la mimesi ma il Logos: la ragione vince l’irrazionalità. Riporto poche frasi che sintetizzano il suo pensiero: «Resta fuori chi crede di poter vincere labirinti sfuggendo alla loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l'atteggiamento migliore per trovare la via d'uscita, anche se questa via d'uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all'altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto».

Il tema del labirinto è poi affrontato sistematicamente nell’opera di Franz Kafka ed in particolare ne “Il Castello” e nel racconto “La tana”.
Ne “Il Castello” un agrimensore, di cui ignoriamo il nome completo e che viene chiamato semplicemente K., giunge in un villaggio governato da un Conte che trascorre la sua vita in un Castello che, dall’alto della collina su cui è costruito, incombe sul circostante territorio. Al desiderio dell’agrimensore di lavorare in quelle terre, difficoltà insormontabili si oppongono: il castello è sede di una mostruosa burocrazia, ordinata con una complicata e inesorabile gerarchia, che amministra il villaggio con un groviglio di leggi contrarie alla morale e alla logica. E tuttavia gli abitanti del villaggio le accettano e se ne fanno scudo, quasi, per respingere nell’isolamento il nuovo venturo il quale si trova così circondato da un impenetrabile muro di diffidenza. Eppure K. Non desiste, si attacca a qualsiasi espediente per superare questa condizione e penetrare, “comunicare” col mondo del Castello, sintetizzato da lui in Klan, uno dei tanti signori che vi abitano. Riesce a sedurre -per realizzare il suo piano- Frieda che gode i favori di Klan, ma poi purtroppo viene da lei abbandonato. Proprio quella notte K. Entra casualmente in un albergo dove i signori del Castello alloggiano quando scendono in villaggio: per la prima volta uno degli innumerevoli funzionari gli offre benevolmente aiuto. Ma K. stanco, si addormenta e non ode il discorso del funzionario. Qui il romanzo si interrompe.
Nella "Tana", uno dei suoi racconti più belli, Kakfa immagina un animale anche qui non meglio precisato che, ossessionato dall’idea di un’aggressione, inizia a costruire un rifugio sotterraneo sempre più complicato, fatto di tunnel, labirinti, biforcazioni, stratificazioni, vie laterali. Al procedere dell’opera, però, l’animale trova sempre nuovi motivi di preoccupazione: ora è una parete all’apparenza poco solida, ora il bisogno di camuffare meglio un passaggio segreto. Rosa dall’ansia, la bestia decide infine di uscire all’aperto perché solo appostandosi nei paraggi dell’entrata potrà a spiare meglio e da una posizione più sicura l’arrivo del nemico.
In entrambe le opere è evidente il tema del labirinto: K. deve orientarsi tra le strade da percorrere che sono sia strade concrete (qual'è quella che porta al Castello, quali sono "i luoghi" del Castello, quali sono le sue porte, quali sono i suoi confini) sia strade immateriali (deve orientarsi tra le norme, le regole, i valori del sistema, tra le tante contraddizioni che si rilevano in ciò che viene fatto e viene detto, tra rappresentazioni simboliche che tenta di leggere con tortuose ed esse stesse labirintiche riflessioni e colloqui).
Questo vale, in qualche modo, anche per il lettore: anche per noi infatti il Castello, con la complicazione della sua pianta e la difficoltà dei suoi percorsi, è un vero e proprio labirinto: "geografico", "logico, organizzativo-istituzionale, simbolico. L'accesso al centro di un labirinto è vietato a coloro che non sono qualificati: esso rappresenta una sorta di prova iniziatica, discriminatoria, preliminare al cammino verso un centro nascosto. Qui il labirinto assume il valore di difesa di qualcosa di prezioso e di sacro: non permette l'accesso se non a coloro che ne conoscono la pianta, agli iniziati. E la difesa è anche contro il male rappresentato dall'intruso, colui che è pronto a violare i segreti, il sacro, l'intimità dei rapporti con il divino. Il rituale labirintico è un rituale di iniziazione, ed è anche l'archetipo della paura, un simbolo della discesa e spesso un tema da incubo, mentre la nozione di centro equivale all'ombelico, all' onphalos del mondo...
Ad un altro livello, il labirinto conduce anche all'interno di sè stessi, verso una sorta di santuario interiore e nascosto, nel quale si trova la parte più misteriosa della persona umana.
Anche ne "La tana", abbiamo un labirinto: mentre esso è metaforico ma con effetti terribilmente reali ne "II Castello", è concreto ne "La tana". In entrambi i testi è presente, con i temi del LUOGO CHIUSO e del VARCARE LA SOGLIA, la problematica del rapporto ESTERNO/INTERNO. Sono racconti chiusi nello spazio, quindi, ma anche nel tempo: la dimensione temporale è infatti, congelata sul presente.
Ma mentre nel "Castello", K. si trova all'esterno, vorrebbe entrare e non gli è consentito, ne "La tana" l'animale è, invece, dentro il labirinto; il "forestiero", l'estraneo", il NEMICO è fuori, ma contro il pericolo di un suo pur sempre possibile ingresso nella tana la difficoltà degli ostacoli da porgli di fronte non è considerata, dall'animale, mai sufficiente. K. "vuole entrare" nel Luogo chiuso del mondo del Castello: solo "entrandovi dentro" sarebbe sicuro, legittimato; l'animale "non vuole uscire", ma forse sarà" costretto a farlo. In entrambi i casi, però, luogo chiuso (castello o tana) sembra essere sostanzialmente uno SPAZIO MENTALE: il mondo-castello la rappresentazione di un immaginario riguardante il rapporto individuo/istituzione inteso, come abbiamo visto, in termini di desiderio del rapporto con l'Altro; nel racconto "La tana", abbiamo la rappresentazione di un immaginario che è quello della paura del rapporto con L'Altro/nemico ed in cui i cunicoli non sono che i tortuosi meandri di una mente pensante. Il racconto è una micidiale allegoria della nostra condizione. La paura dell’altro ci induce a immaginare difese e tecniche di controllo sempre più sofisticate ma, come l’animale di Kafka, non ci rendiamo conto che il nemico da cui dobbiamo guardarci non è fuori ma dentro di noi. La paura dell’altro è, in sostanza, paura della propria intimità. Intimità che diventa alterità minacciosa nel momento in cui l’io, suggestionato da un sogno di dominio e autosufficienza, dimentica di riconoscerla e accudirla con la sollecitudine che si riserva alle cose più essenziali. Questo è per Kafka il nostro labirinto.

Tutta la letteratura potrebbe essere intesa genericamente come un labirinto spirituale, un rifugio da emozioni di vario genere. E’ labirinto d’amore in Petrarca che si “perde” continuamente nel sentimento e nella solitudine, è un labirinto l’ “Infinito” di Leopardi così come il mare nei romanzi di Hemingway... In modo diverso i grandi scrittori ci comunicano le vie d’uscita o l’impossibilità di trovarne, in ogni caso la letteratura con i suoi labirinti è espressione della complessità dell’animo umano che rimane spesso intrappolato nella realtà a causa delle mura che da solo ha innalzato intorno a sè, proprio come il protagonista della Tana.



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