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Due film visti per voi

Visioni di mondi lontani: KING KONG e KIRIKU


Di Daniela Losini

KING KONG
Peter Jackson visita ancora la terra di mezzo del fantasy, genere sempre a rischio di eccessivo e retorico schematismo nonchè di rapaci interpretazioni pseudo-religiose. Restituisce e amplifica le emozioni primordiali che suscitava la pellicola originale, diretta nel 1933 da Merian C. Cooper e Ernest B. Shoedsack.
Alla vicenda dello struggente Quasimodo gigante della giungla, aggiunge pathos in termini di evidente disposizione di mezzi cinematografici, la cui disamina sarebbe puro tecnicismo ma volentieri ci si crogiola nell'altissima qualità. Il plusvalore è la capacità di coinvolgimento empatico: che ci vuole a rendere amabile un pantagruelico gorilla solitario? Forse niente ma affrancarlo dal ridicolo ed essere all'altezza della sfida, è tutta un'altra storia. Ben raccontata. Non c'è nulla lasciato al caso: ogni scena, anche quella più sbragata (gli scontri tra titani sono esagerati e intrisi di quintali di adrenalina ma è lì che si ritrova il grande cineasta di "Bad Taste") gronda amore per il cinema e generosità di suggestioni e l'isola del Teschio è la primitiva culla della Natura per eccellenza: relega gli indigeni ai margini, regnando smisurata di taglia e forza.
Convince con l'unica chiave possibile: l'immaginazione a 360 gradi tradotta nella magia della celluloide. Non era scontato riuscirci. Jackson infila spericolato battute come "I mostri lasciateli ai film a basso costo" conscio di aver disatteso per primo tale assunto, ma gli si renda merito d'averlo fatto con grazia, ironia e lirismo. King Kong non piacerà ai sofisti né ai rigidi di cuore. Si astengano. Gli altri, si godano la visione per tre ore: passeranno velocissime, ardenti e vivide.

KIRIKU E GLI ANIMALI SELVAGGI
Michel Ocelot ha trascorso parte dell’infanzia immerso nelle suggestioni africane (da piccolo ha realmente vissuto nella madre di tutte le terre) e da questo tipo di educazione prende ispirazione per i tratti tipici del suo immaginario artistico. Il registro narrativo è quello didascalico - ma mai superficiale - della parabola e della metafora che inducono all’ascolto e alla riflessione. I disegni sono tersi, densi di colore, puliti e senza fronzoli, statici nel movimento ma impareggiabili nella rappresentazione visiva. Dopo il grande successo di pubblico di “Kirikù e la strega Karabà” e con l’ausilio della collaborazione di Benedicte Galup, si ritorna nella grotta celeste, dove il nonno del minuscolo e saggio (ma non lezioso) protagonista ha in serbo altre piccole vicende da sviscerare. Una bestia nera e aggressiva minaccia il raccolto del villaggio e i suoi abitanti sono costretti a ingegnarsi per procurarsi il cibo. Scoprono l’argilla e fabbricano terre cotte (la genesi del commercio), attraversando la savana per raggiungere il mercato. Ma la Strega Karabà odia con tutte le sue forze il pollicino nero che finisce sempre per vanificare ogni sua malefatta e gli scatena contro i suoi guardiani: i feticci. Lo costringono a rifugiarsi negli alberi e per liberarsi troverà un passaggio di fortuna aggrappandosi a una giraffa. Ma la strega ha in serbo un colpo basso e il piccoletto dovrà occuparsi di salvare la madre rischiando ancora una volta la propria incolumità. Intrecci disadorni, con un sottotesto immediato che hanno il pregio di raccontare di altri paesi con estrema spontaneità e di fornire una chiave di lettura diretta. I personaggi sono schematici ma funzionali al racconto che si dipana soave con l’ausilio di canti – alle musiche e ai testi originali ha contribuito anche Youssou N’Dour - e celebrazioni danzanti. La morale è lineare ma mai semplicistica e il neonato, scaltro e intraprendente, è adorabile.

Argomenti:   #cinema ,        #film ,        #recensione



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