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L’inquinamento, questo sconosciuto

Tutte le attività umane producono ‘inquinamento’, bisogna sempre tenerne conto. Il concetto di ‘impronta ecologica’ aiuta a comprendere appieno quanto si inquina

Di Concetta Bonini

Quando si parla di qualità della vita non si può non toccare anche l’argomento inquinamento: esso infatti coinvolge direttamente la nostra quotidiana esistenza determinando prepotentemente il grado di vivibilità dei nostri “habitat”.
Pur essendo un argomento che ci tocca molto da vicino però, spesso e volentieri la nostra idea di inquinamento si limita ad essere superficialmente e semplicisticamente limitata all’inquinamento “emergente”, ovvero quello che vediamo e misuriamo in modo immediato in relazione ad un particolare fenomeno.

Dovremmo invece educarci ad essere più attenti, a comprendere che in realtà tutta l’attività umana inquina: non a caso troppo spesso ci accorgiamo dell’inquinamento a posteriori.

Ogni attività dunque e i vari passaggi che ci portano poi alla realizzazione di un qualsiasi prodotto, inteso nel senso più ampio, producono effetti inquinanti in quanto modificano l’ambiente esistente, pur non influendovi talvolta direttamente. Questi effetti possono essere resi più evidenti dal concetto di “impronta ecologica”. Si tratta di un indicatore degli usi che ci sono necessari per sostenere il nostro stile di vita in termini di spazio produttivo sfruttato, risorse consumate, rifiuti prodotti. Questo dunque ci avverte del peso sulla natura del nostro tenore di vita e ce ne indica la sostenibilità ambientale invitandoci, ove necessario, a ridurre la nostra impronta ecologica. Proprio per questo nel corso della Conferenza Onu di Rio de Janeiro del 1992 è stata codificata la cosiddetta Agenda 21 che ha il compito di realizzare a livello locale i parametri di sostenibilità.
Dunque va stabilita innanzitutto la pericolosità di un prodotto anche in base al suo tempo di decadimento e all’ambiente in cui viene effettuata la modifica, in relazione al quale ogni evento può a tutti gli effetti assumere valori diversi. Ma muovendoci nell’ambito dell’impronta ecologica non possiamo fermarci ad esaminare i singoli eventi, i singoli effetti e i singoli valori per stabilire il grado di inquinamento causato da un prodotto. Bisogna invece tenere conto di tutta la catena di eventi legati alla sua produzione, al suo utilizzo, ed infine al suo smaltimento.

Possiamo a tal proposito citare un semplice esempio: il PVC. Si tratta, come noto, di una materia plastica che è stata molto diffusa fino a pochi anni fa e che viene prodotta con l’uso di cloro, a sua volta ottenuto col sistema delle celle elettrolitiche a mercurio. Questo ha portato, attraverso le acque di scarico delle celle elettrolitiche, all’inquinamento da mercurio dei mari e della catena alimentare ittica. Poi il PVC, materia plastica rigida, veniva plastificato, per essere più flessibile, con prodotti fortemente tossici come gli ftalati: peccato che poi il Pvc veniva usato per pellicole e contenitori alimentari e per giocattoli per bambini. Infine, nella fase di smaltimento, era difficilmente eliminabile e, se immesso negli inceneritori, era uno dei componenti basilari per la formazione di diossina. Alla luce di queste considerazioni, possiamo facilmente concludere che l’uso di un materiale come il PVC per imballaggio o contenitori alimentari genera grandi volumi di prodotto ad alto potenziale inquinante, mentre invece è possibile sfruttarlo per i prodotti rigidi come i tubi per l’edilizia, di modo che il quantitativo sia limitato, non vi sia inquinamento nell’uso e lo smaltimento non si mischi ai residui urbani.

Un altro esempio sono le piastrelle, una volta venivano fissate con malte inorganiche, ma da qualche decennio si usano malte con collanti che permettono una posa più veloce e con ridotti spessori: l’eliminazione delle difficoltà operative ha portato però all’uso di prodotti che per decenni emettono sostanze tossiche e inquinano. Al di là della realizzazione della piastrellatura dunque si generano effetti inquinanti a lungo termine che vanno letti anche in relazione all’uso degli ambienti interessati, che potrebbero essere ad esempio appartamenti vissuti e cucine. Questo problema è ancora più grave quando lo stesso sistema viene applicato per i pavimenti, che vengono a ”inquinare” così tutta l’abitazione

Ma gli effetti del pressappochismo con cui siamo soliti non andare oltre quello che vediamo, a lungo andare si fanno sentire su larga scala.
E’ il classico inquinamento che generiamo nei fiumi, nei laghi, nei mari, laddove tutti i rifiuti che noi vi scarichiamo senza accorgercene si accumulano e continuano ad agire in modo distruttivo anche se ci sono pressoché invisibili. Ne è un esempio l’eutrofizzazione dei laghi che ci è stata chiara solo dopo gli anni ’70, quando in realtà dagli anni ’50 usavamo i detersivi sintetici che utilizzavano polifosfati che, dopo il lavaggio, finivano nelle acque dei laghi e si depositavano sul fondo: qui agiscono da fertilizzanti permettendo il fiorire di rigogliose praterie di alghe; ma queste consumano ossigeno in proporzioni maggiori rispetto a quello che sono in grado di rigenerare pertanto ad un certo punto le alghe muoiono e trasformano il fondo del lago un una fossa piena di prodotti di degenerazione dei tessuti vegetali che non permettono più la vita.
Allo stesso modo abbiamo fatto scempio della nostra atmosfera producendo danni ambientali di gravità inaudita come il buco dell’ozono, ma ce ne siamo accorti sempre troppo tardi per la nostra assoluta noncuranza.

Quelli che vi abbiamo citato sono solo alcuni esempi, soltanto alcune delle più eclatanti dimostrazioni della nostra cecità di fronte agli elementi di inquinamento che generiamo senza accorgercene, senza pensarci, senza prendercene cura. Con troppa sicurezza pretendiamo di stabilire quanto sia sano l’ambiente che ci circonda, ma spesso ci fermiamo a valutazioni di apparenza senza andare a scandagliare sul fondo per calcolare le proporzioni dell’iceberg di cui vediamo solo la punta.
Per questo usiamo senza saperlo prodotti estremamente dannosi (ad esempio i dadi per brodo a base solo di glutammati o le padelle di teflon, sospettati di essere cancerogeni) soltanto perché sono di larga diffusione commerciale, di basso costo e di facile utilizzo.
Quello che le organizzazioni ambientali si preoccupano di urlare al mondo da cassandre inascoltate è proprio il pesante rischio ambientale che genera la nostra impronta ecologica: non ci limitiamo ad usare una porzione di ambiente ma ne abusiamo nel modo più sconsiderato. E’ questo un atteggiamento che è diretta conseguenza della nostra società consumistica esclusivamente dedita a cicli di produzioni e consumo strutturati sulla base di valutazioni meramente economiche e totalmente incuranti dei relativi parametri ambientali.
La pesante mancanza di consapevolezza del nostro potenziale inquinante, o addirittura devastante, si sposta verticalmente dalle scelte degli stati e delle grandi multinazionali fino alle nostre case laddove siamo noi a doverci assumere la responsabilità delle scelte: potremmo cominciare da qui ad acquisire la coscienza necessaria a razionalizzare la nostra impronta sulla Terra che, gentilmente, ci concedere ancora un’ospitalità che non meriteremmo.

Argomenti:   #ambiente ,        #diossina ,        #ecologia ,        #inquinamento ,        #onu ,        #pvc ,        #società ,        #vita



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