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 Anno II n° 3 del 16/02/2006    -   LENTE DI INGRADIMENTO



Eutanasia

Di Concetta Bonini


La morte. La visione della morte è, indubbiamente, tra le cose più relative nella relatività delle visioni umane. Si perdoni il gioco di parole, ma è indubbio che la morte sia l’argomento che meglio si presta ad opposte interpretazioni a seconda che a darle sia un credente, un laico, un provvidenzialista, un nichilista e chi più ne ha più ne metta. E se cambia l’interpretazione del concetto di “morte”, conseguentemente al concetto di “vita”, a maggior ragione cambia l’interpretazione del diritto di morire.

Il riferimento va, chiaramente, all’eutanasia. Argomento complesso, discusso spesso con superficialità o peggio sull’onda di luoghi comuni o fondamentalismi.
Vediamo innanzitutto di fare un po’ di chiarezza sul concetto di eutanasia. Il termine “eutanasia” fu coniato da Francis Bacon nel 1605 con l’intenzione di indicare la “buona morte” e per esattezza una “morte dolce e tranquilla” che egli considerava “parte non trascurabile della felicità”. Oggi per eutanasia si denomina l’atto di porre intenzionalmente fine alla vita, da parte di un medico, su richiesta esplicita del paziente. Si tratta in questo caso di una eutanasia attiva, differenziata dall’eutanasia passiva che consiste semplicemente nella rinuncia all’accanimento terapeutico ovvero nella sospensione di tutte quelle cure oramai inutili, laddove non ci sono più margini di suscettibilità al trattamento e non vi è più alcuna ragionevole possibilità di successo.

Diversi sono i casi degli stati vegetativi permanenti: si tratta di casi come quello di Terri Schiavo, per intenderci, in cui si può intervenire con la sospensione di quello che è considerato il doveroso sostentamento tramite idratazione e nutrizione artificiale, sebbene il soggetto non sia in grado di percepire il proprio stato di vita, il fatto di essere alimentato, così come non è in grado di percepire di non esserlo più o di soffrire. Venendo a mancare la volontà del paziente, usciamo in questi casi dal terreno dell’eutanasia ma i margini sono deboli e si tende sempre più spesso a definire anche qui una casistica e soluzioni di mediazione quali possono essere i testamenti biologici.

Gli unici paesi d’Europa in cui attualmente esiste una legislazione precisa in materia sono l’Olanda e il Belgio, ma anche l’opinione pubblica di tutti gli altri paesi reclama con sempre più forza le opportune garanzie in merito.
L’Italia naturalmente si dimostra estremamente restia ad approfondire il tema, anche per la pesante influenza della Chiesa di cui siamo vittima: ma di questo ci siamo già occupati perchè, come scrive nel suo ultimo illuminante saggio Libera Chiesa. Libero Stato? Sergio Romano: “una parte della Chiesa è convinta che le sue radici siano qui in Italia e che il controllo delle anime degli italiani sia il suo vero, irrinunciabile potere temporale”. Ma è anche vero che nel nostro paese una legge non esiste perché, come scrisse Montanelli precorrendo i tempi “nessun parlamento né presente né futuro mai sarebbe capace di affrontarla senza trasformarla in una rissa di partito a scopi puramente demagogici ed elettorali”.

L’eutanasia è indubbiamente uno degli aspetti più problematici dei dibattiti della società moderna: si muove infatti sul filo dell’etica, ma soprattutto sul confine sottile e in questi casi sostanzialmente incerto che divide la vita e la morte.
Per stabilire il valore da attribuire all’atto dell’eutanasia infatti, è necessario stabilire cosa si intende per vita e cosa per morte: siamo creature di un dio che è l’unico detentore del nostro diritto di nascere e morire oppure siamo creature dotate di libertà e dunque anche della libertà di morire? La morte è un passaggio verso un qualunque aldilà o è semplicemente la naturale conclusione biologia di ogni processo di vita? E la vita sta in un fatto puramente biologico o piuttosto nella consapevolezza di sé?

Se diamo retta alle religioni scopriamo di vivere e morire per il Signore, chiunque egli sia, ma in materia di eutanasia c’è anche da dire che l’ebraismo condanna l’accelerazione della morte tanto quanto il tentativo di ritardarla con mezzi artificiali, così come l’islamismo puntualizza che il compito del medico deve essere quello di mantenere il processo della vita e non quello della morte quando è scientificamente accertato che le funzioni vitali non possono essere restaurate.

Il dibattito oggi è complicato in qualche modo dalle scoperte della scienza e della medicina: se non avessimo l’opportunità di avere la vita prolungata artificialmente in un disperato braccio di ferro con la morte, non ci troveremmo a dover discutere se è il caso di costringerci a continuare a vivere quando invece vorremmo morire... Ci ritroviamo insomma nelle condizioni di dover temere, piuttosto che la morte, la pena di una vita troppo lunga e, alla fine, assolutamente insensata.

A questo punto è chiaro che ognuno dev’essere messo nelle condizioni di essere libero di credere quel che vuole: chi considera la propria vita un dono di dio e la propria sofferenza eroica è chiaramente libero di portare la propria malattia sino all’estremo delle sue conseguenze, ma chi invece non ha la forza per poter sopportare una tale sofferenza, chi è stanco dell’umiliazione mortificante di una malattia devastante, chi ha paura di quello straziante ed interminabile processo del morire allo stadio dell’irreversibilità ed è convinto di non voler rinunciare alla propria dignità di essere consapevole e preferisce porre fine al suo dolore deve essere altrettanto libero di farlo.

Come uomo e come medico io sento un solo dovere: quello di un appello alla pietà. E la pietà non è ideologica, è un sentimento che appartiene a tutti e che fa parte dell’onore di dirsi uomo”, così Umberto Veronesi apre il suo libro sull’eutanasia e continua: “Io penso, tout court, che il diritto di morire faccia parte del corpus fondamentale dei diritti individuali”.
Dev’essere chiaro infatti che si tratta di una parte integrante dell’autodeterminazione dell’individuo che abbiamo conquistato con le battaglie liberali delle nostre carte dei diritti, nelle quali non dovrebbe mancare, per non essere monche, il semplice diritto di poter morire.

I rischi, è vero, sono molti ma è bene ricordare un paio di cose: innanzitutto il suicidio non è reato e in secondo luogo, per quanto dura possa talvolta mostrarsi la vita, per quanto teoricamente si possa affermare che è più difficile vivere che morire, nella pressoché totalità dei casi pratici è sempre molto più comodo scegliere di continuare a vivere in qualche modo piuttosto che sconfiggere la nostra naturale tendenza all’autoconservazione e affrontare volontariamente la morte.

In definitiva dovremmo imparare a rispettare il dolore altrui e anche l’altrui impossibilità di sopportarlo: con ogni probabilità nelle stesse condizioni di chi sceglie l’eutanasia nessun altro di noi ne sarebbe capace. Si tratta di situazioni drammatiche, laceranti, che non possono essere oggetto di baluardi ideologici, che non possono essere mortificate al rango di dibattiti politici. Nessuno di noi in grado di determinare con certezza il valore da attribuire alla morte e nessuno di noi è nemmeno in grado di arrogarsi il diritto di giudicare o addirittura condannare chi si appresta a scelte tanto difficili.
E’ il caso insomma di cominciare a ricordare che, come dice il protagonista Ramòn nel film di Alejandro Amenabar sull’eutanasia, “vivere è un diritto, ma non un obbligo”.



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