Quando parliamo di morte, sebbene ognuno si accosti a questo concetto con la
propria sensibilità, non possiamo non pensare, non solo alla nostra futura morte,
ma anche alla morte delle persone che ci sono care, che nei momenti più inattesi
ci piomba nella vita e la stravolge con lutti che non sempre siamo in grado di
elaborare, che talvolta ci distruggono.
Nessuna parola è sufficiente a giustificare quanto sia bene o male piangere la
morte di un uomo, se lo facciamo per nostro grande egoismo o, altrimenti, per
chissà cosa per cui dovremmo dolerci per lui. Sono domande che non troveranno
mai una risposta tra gli uomini, eppure ognuno a suo modo ne ha tentata una.
Quella che ho scelto di riportare qui, per intero, poiché mi è sembrata da
sempre la più convincente, è quella data da Lucio Anneo Seneca.
Il brano è tratto dalla Consolatio ad Polibium, steso appunto nella forma della
consolatio per dolori e per i lutti allora in voga a Roma e tipica della trattatistica
filosofica greca. Influenzato da concetti stoici ed epicurei, originalmente fusi in un
complesso processo di ricerca interiore sotto l’influsso delle suggestioni di un’età
alla ricerca di religiosità e dunque particolarmente sensibile ai temi esistenziali,
Seneca elabora il suo concetto di morte. Di questa “necessità imparziale e
incontrastabile” Seneca ammise di non sapere e di non potere individuare l’essenza. Ma, pur non sapendo cos’è la morte, essa è comunque “aut finis aut
transitus” (o fine o passaggio) e ad ogni modo con essa non dovremo convivere
mai: se ci siamo noi non c’è ancora lei e se c’è lei non ci siamo più noi o siamo
già qualcosa di diverso. Non sappiamo nemmeno se siamo dotati di anima e, in
tal caso, cosa ne sarà di essa, di noi: “aut nullus aut beatus” (o niente o beato)
dice ancora Seneca. Non sappiamo cioè se ci apre le porte del nulla eterno
foscoliano, il porto di quiete dell’esistenza, o se non è nemmeno questo (“che già
sarebbe qualcosa”). Non sappiamo se invece è un passaggio verso i Campi Elisi
o l’Ade, un Paradiso o un Inferno, un altro corpo o un Nirvana. Si tratta in ogni
caso di condizioni che è sciocco temere. Dobbiamo per questo imparare a dare
alle cose il giusto valore: dobbiamo saper accettare la morte, dobbiamo imparare
a morire, se vogliamo riuscire a vivere.
[1]Ti sarà di grande sollievo il chiederti spesso: Mi dolgo per me o per colui che è
morto? Se mi dolgo per me, non posso più vantare bontà d'animo: il dolore, che
è ammissibile soltanto se disinteressato, incomincia a non essere più espressione
d'affetto al momento in cui si propone un vantaggio, e non c'è cosa più
sconveniente ad un uomo per bene, che il fare calcoli sulla morte di un fratello.
[2] Se, invece, mi dolgo per lui, debbo necessariamente riconoscere che si
verifica una sola di queste due alternative: infatti, o i morti non hanno più
conoscenza e, in tal caso, mio fratello è sfuggito a tutti i disagi della vita, è
tornato nella condizione in cui era prima di nascere e, immune da ogni male, non
teme, non desidera, non soffre nulla. Che pazzia è questa, di non voler io mai
smettere di piangere per uno che non soffrirà mai più?
[3] Oppure i morti hanno una conoscenza, ed allora l'animo di mio fratello, come
liberato da lunga prigionia e divenuto finalmente autonomo e padrone di se
stesso, esulta perché gode lo spettacolo della natura, osserva dall'alto tutta la
realtà umana ed ha sott'occhio quella divina, di cui aveva invano ricercato a
lungo la dinamica recondita. Perché, dunque, macerarmi nel rimpianto di una
persona che o è felice, o non esiste affatto? Piangere un essere felice è invidia,
piangere un inesistente è demenza.
[4] O ti rattristi perché egli è stato privato di grandi beni, al momento in cui
maggiormente gli fluivano attorno? Quando ti prenderà il pensiero che le cose
perdute da lui sono molte, rifletti che sono più numerose quelle che non teme
più. Non lo tormenterà più l'ira, non lo affliggeranno le malattie, non lo
esaspererà il sospetto, non lo perseguiterà l'invidia, erosiva e costante nemica
dei successi altrui, non lo preoccuperà il timore, non lo inquieterà la fatuità della
fortuna che sposta continuamente i suoi favori. Se fai bene i conti, gli è stato
accordato più di quanto gli è stato tolto.
[5] Sì, non godrà più le ricchezze ed il
prestigio tuo insieme e suo, non riceverà e non farà più benefici; ma tu lo reputi
misero per aver perduto queste cose, o felice di non averne più bisogno? Credi a
me: chi può fare a meno della fortuna è più felice di chi se la trova scodellata in
mano. Tutti codesti beni che ci dilettano di voluttà appariscente ma fallace,
denaro, cariche, potere e tantissime altre cose che fanno istupidire di cieca
cupidigia il genere umano, comportano fatica per l'acquisto, suscitano invidia in
chi le vede e finiscono con l'opprimere proprio quelle persone che mettono in
bella vista, sono più pericoli che vantaggi, sono sfuggenti ed incerte e non si
lasciano trattenere facilmente; anche ammesso che non si prospettino timori per
il futuro, comporta preoccupazioni il puro e semplice mantenimento di una
grande prosperità.
[6] Se vuoi credere a chi sa vedere la verità a fondo, la vita è tutta un supplizio.
Gettati su questo mare profondo ed irrequieto, in un continuo fluttuare di marosi
che ora ci sollevano ad inattese altezze, ora ci buttano abbasso e ci infliggono
perdite superiori al guadagno, continuamente sballottati, non abbiamo mai dove
fermarci: siamo sospesi e fluttuanti, sbattiamo l'uno contro l'altro, una volta o
l'altra facciamo naufragio, sempre siamo in apprensione. Questo mare, così
tempestoso ed aperto a tutte le bufere, nel quale navighiamo, non ha altro porto
che la morte.
[7] Non invidiare dunque tuo fratello: egli riposa. È finalmente
libero, sicuro, eterno. Prima che la fortuna mutasse qualcosa del suo favore,
mentre era ancora al suo fianco e gli largiva a piene mani i suoi doni, egli si è
congedato.
[8] Ora gode il cielo, aperto e libero. Dal luogo più umile e basso, è balzato in
quello, qualunque esso sia, che accoglie nel suo felice seno le anime liberate
dalle catene; ora egli vaga libero lassù e contempla con sommo piacere tutti i
beni della natura. Sbagli dunque; tuo fratello non ha perduto la luce: ne ha
trovato una più limpida.
[9] Noi tutti siamo in cammino verso quella meta comune. Perché piangere la
sua morte? Non ci ha lasciati: ci ha preceduti. Credimi, è grande felicità morire
nel momento in cui si è più felici. Nulla ci è certo, nemmeno per lo spazio di un
giorno. Chi può divinare, di fronte ad una verità avviluppata in un velo tanto
oscuro, se la morte è stata maligna o benevola con tuo fratello?
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