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Uccidere: un atto contro natura anche in guerra


Di Anna Fabbri

Prendendo a prestito la definizione di Schiller della guerra e trasferendola sul soldato, cioè sul principale attore della guerra medesima, possiamo affermare senza timore di esagerazione che quello del soldato “è un rozzo e violento mestiere”. Un mestiere antico tuttavia, forse il più antico mestiere dell’uomo poiché dall’inizio dei tempi l’umanità ha avuto a che fare con la guerra; dallo scontro tra Dio e Lucifero e le sue legioni di angeli caduti – antesignani del soldato umano – o, per passare in ambito classico, a partire dalla lotta patricida tra Zeus e Crono. La belligeranza sembra quasi un evento inevitabile perché connaturato al genere umano e la licenza di uccidere, che la guerra dà, appare un fatto accettabile.
Eppure, benché durante i millenni schiere infinite di ragazzi si siano maciullate in interminabili trincee, fatti saltare in aria con bombe o bruciare con il napalm, spesso senza nemmeno sapere il motivo del loro sacrificio, la guerra e il dare la morte in guerra permane un atto contro natura. Un atto talmente contro natura che fare il soldato è stato fino a pochissimo tempo fa un mestiere obbligato, raramente desiderato e le conseguenze dell’agire da soldato hanno spesso avuto gravi ripercussioni sulla psicologia e la vita dei soldati stessi, una volta tornati a casa.

Certo nell’antichità quello del soldato era un mestiere onorabilissimo, i condottieri provenivano dalle più aristocratiche famiglie del loro paese, formavano una casta privilegiata che godeva di rispetto e onori ma questo riguardava sempre e solo i condottieri, coloro che spostano battaglioni, organizzano attacchi e controffensive, come i giocatori di scacchi fanno con i pezzi e non si sporcano quasi mai le mani. Ma i soldati semplici di oggi e di ieri, gli opliti di Sparta, i legionari di Roma, o il soldato Ryan americano, coloro che fanno tutto lo sporco lavoro, si sentiranno davvero onorati dal loro mestiere? Che cosa provano a dare la morte a chi nemmeno conoscono, a qualcuno che se lo avessero incontrato in un altro tempo e in un altro luogo magari sarebbe stato loro amico?

La leva non obbligatoria è storia recentissima poiché per secoli si era soldato per obbligo irrinunciabile, costretti a dare la morte o riceverla, vittime due volte. E così giovani vite, tutte con un amore, una famiglia che li aspettava a casa, una vita intera da riempire, partivano per compiere il loro dovere e il loro sacrificio. Gli altari sui quali immolarsi sono stati molteplici e dai nomi spesso altisonanti, sempre diversi, i più gettonati sono quello della patria da difendere da un nemico (altissimo valore tradizionale, classico e risorgimentale) o quello della democrazia o della verità da esportare (motivazione questa molto in voga nelle guerre del XX secolo). In questo caso converrebbe però ricordare le parole che Umberto Eco ne “Il nome della rosa” mette in bocca a Guglielmo da Baskerville rivolto al suo pupillo: “Temi, Adso, i profeti e coloro pronti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro”. Indubbiamente per mandare qualcuno a dare la propria vita o dare la morte bisogna trovare una buona motivazione, meglio quindi un qualsiasi valore da difendere che non la necessità di portare a casa il nostro barile di petrolio quotidiano.

Con l’evolversi dei tempi e l’avvento della guerra tecnologica, che ha bisogno di meno materiale umano da mandare al macello, ecco che si punta sulla leva volontaria, il soldato diventa un modo per fare un po’ di soldi in fretta (lo sanno bene i soldati delle nostre missioni di pace o presunte tali, con le loro retribuzioni che si aggirano sulle migliaia di euro mensili) o più prosaicamente per rispondere al bisogno di trovare un posto fisso e un briciolo di visibilità nella società dalla quale sono spinti ai margini (chissà come mai la grande maggioranza di soldati americani non proviene dai più prestigiosi college ma piuttosto dai ghetti delle minoranze etniche?). In certi esigui casi l’altare sacrificale ha un nome talmente altisonante e pomposo da essere difficilmente contrastabile: eroismo.

Alcuni soldati, ovviamente volontari, partono e partivano per soddisfare un insopprimibile desiderio di eroismo, tanti principi Andrej Bolkonskij che, come il protagonista di “Guerra e Pace”, si arruolano per dare un senso alla propria esistenza vuota, salvo poi ravvedersi, ugualmente al personaggio di Tolstoj, quando a terra feriti si confrontano con la vista dell’immensità del cielo che oppone un contrasto stridente alla propria umana pochezza, comprendendo la vanità dei propri sogni di gloria, e soprattutto, confrontandosi con l’immotivata morte altrui.

Immotivata, la tragicità della condizione del soldato è in fondo racchiusa in questo aggettivo. Cantava bene De André ne “La Guerra di Piero” l’inaudito orrore di uccidere un uomo solo perché ha la divisa di un altro colore e “se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore”
.
Dare la morte a un altro essere umano, senza un personale e valido motivo, è un atto talmente innaturale che, malgrado le rassicurazioni della società sulla sua inevitabilità e giustezza, la coscienza non lo accetta. C’è dell’incredibile in questo gesto, dell’orrore indicibile oltre che dell’assurdo, la coscienza per accettare un simile gesto compiuto ha bisogno di rimuoverlo, nascondendolo dietro il paravento dell’inevitabilità dovuta allo stato di guerra o reificando l’oggetto di quella violenza. Ecco che il nemico, sia esso soldato o civile, diventa solo un oggetto. Un oggetto, come se la guerra fosse solo un videogame.

Uccidere un avversario che non si guarda negli occhi, o provocare vittime che non si vedono cadere di fronte al nostro sguardo attonito può essere facile: sgancio una bomba su una città e ho solo raggiunto un obbiettivo, vedo una nuvola di fumo levarsi alta e soave come in un dipinto di Magritte e tutto è in fondo facile, indolore, io ho solo compiuto bene il mio dovere. Diverso è vedere il “nemico” cadere sotto i propri occhi, lì non c’è paravento tanto grande che possa nascondere l’orrore. Lì vale la bellissima frase pronunciata dal Capitano Miller (Tom Hanks) in “Salvate il soldato Ryan”, dice: “Più uomini uccido e più mi sento lontano da casa”. E com’è difficile dissentire.

Argomenti:   #civiltà ,        #guerra ,        #militare ,        #morte



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