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 Anno II n° 4 del 02/03/2006    -   IL MONDO - cronaca dei nostri tempi


Il modo del lavoro oggi
I lavoratori sono un patrimonio per l’azienda: gli imprenditori oggi ci credono veramente?
La precarizzazione dell’impiego giovanile pone seri quesiti, tra cui l’impatto sociale di questa prassi
Di Nibbio


Ci credono veramente gli imprenditori al fatto che la vera ricchezza di un’azienda è rappresentata dalla qualità delle persone che vi lavorano? Nel gergo social-laburistico corrente si sublima il concetto con l’espressione ”risorse umane”, ennesimo recupero dall’inglese per dimostrare cultura ed ampiezza di visione: fa parte dei comportamenti reali nelle imprese o è merce da sbandierare nei convegni pubblici?

La realtà del mondo del lavoro, (più significativamente di quel settore terziario che rappresenta, come non smette mai di ricordarci, il 70% del prodotto interno lordo, ma anche nei comparti produttivi) è segnata da un accentuarsi della precarizzazione dell’impiego giovanile, con periodiche rotazioni di dipendenti con contratti a tempo determinato sulla stessa posizione di lavoro.

C’è materia per riflettere, sotto diversi profili.

Il primo appartiene alla struttura stessa della nostra economia, soprattutto quella industriale. Le ragioni che spingono l’imprenditore ad utilizzare strutturalmente lavoro precario sono la ricerca di flessibilità nell’organico e di riduzione dei costi. Non vogliamo pensare che vi sia anche, tra i motivi, l’idea di poster gestire i rapporti sindacali in posizione di maggiore forza. Flessibilità, allora: ma è un vero problema oggi, con gli strumenti legislativi e contrattuali che esistono in Italia? Riduzione dei costi: stiamo ancora peggio, perché – a parte il risibile risparmio reale – è segno di una politica aziendale che ormai è assolutamente perdente, e cioè la ricerca della maggiore competitività attraverso il minor costo dei fattori e non attraverso innovazioni tecnologiche o gestionali. Politica che sarà vincente quando il costo del lavoro italiano e quel cinese o indiano saranno alla pari, sempre che nel frattempo non nasca in qualche parte del mondo un’altra “tigre”, magari in Asia o nell’America del Sud.

Un secondo riguarda ancora la struttura industriale, ma anche quella commerciale, bancaria, assicurativa: stiamo creando una legione di despecializzati, di gente che cambia lavoro ogni anno. Anche qua la domanda che ci si deve necessariamente porre in termini strategici è con quali forze intellettuali e tecnico-operative si intende costruire un futuro. Corriamo il rischio di bruciare le forze vitali di una mezza generazione che abbiamo spinto ad accedere a più alti titoli di studio, che perde gli anni più creativi a girare tra varie posizioni lavorative, che non potrà dare il supporto necessario ad un’auspicata ripresa.

Il terzo aspetto, drammatico, è il disagio giovanile che ne deriva. Disagio di giovani che hanno voglia di lavorare, cui non riusciamo a dare prospettive. Sia ben chiaro: nessuno può pensare di ritornare alle rigidità delle forme di lavoro che hanno ingessato le imprese per decenni. Peraltro l’utilizzo esasperato di forme di flessibilità si rivela negativo per la qualità degli organici aziendali. Occorre ripensare agli strumenti con obiettivi di partecipazione e di produttività.



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