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 Anno II n° 7 del 13/04/2006    -   TERZA PAGINA



Sicilia: i riti di Pasqua e le tradizioni di cucina nel passato

Di Marcella Candido Cianchetti


Si sta uscendo dalla quaresima durata quaranta giorni: quaranta i giorni del diluvio e quaranta quelli della permanenza di Cristo nel deserto. Quaranta giorni di riti arcaici di passaggio che sembrano semplici ed esteriori, ma che in realtà sono complessi e forti: riti tra passato e presente, tra sacro e profano, religione e magia, e che coinvolgono la famiglia al completo e tutta la comunità religiosa.

I riti della “settimana santa”, l'ultima settimana della quaresima, quella che si conclude con la Pasqua, hanno inizio il "mercoledì santo" con la preparazione dei "sepolcri" nelle chiese. I “sepolcri” presentano al centro il "Santissimo" contornato da un'esplosione di spighe legate da nastri rosa, di chicchi di grano lasciati germogliare al buio nelle case, di fiori e piante coloratissime. I colori stridono nel contrasto con le madonne ammantate di manti rigorosamente neri, senza filigrane, né gioielli, né ex-voto, con i drappi neri che coprono ogni singolo simulacro, i pochi lumini e lampade votive, con il portone della chiesa appena socchiuso e abbondantemente listato di lunghi drappi neri. Si andrà a visitare i sepolcri il giovedì Santo, dopo aver preparato il "pane della cena", che trova origine nelle tradizioni arcaiche ed agrarie della Sicilia occidentale. Dal giovedì pomeriggio fino al venerdì mattina verranno visitati da intere famiglie in numero minimo di tre per volta, sempre in progressione in numero rigorosamente dispari. Tutti indosseranno i vestiti della festa per rispetto al "Santissimo", e le madri agghinderanno le figlie da maritare.

La preparazione del "pane della cena" accomunava tutte le famiglie della Sicilia occidentale, ma la farina impiegata era legata alla classe sociale di appartenenza. La ricetta autentica contemplava l'impiego della farina di "Majorca", e già la denominazione ci porta al '500, l'epoca della dominazione spagnola. La farina di Majorca equivale alla nostra farina di grano tenero 0-00, il cui uso destinato al pane era limitato ai cittadini e alle classi abbienti, pur avendo in realtà valori nutrizionali minori, ed essendo di difficile conservazione perché di facile processo d'ossidazione. Con la Majorca, nella provincia di Catania e di Giarre veniva impastata la cucchia, per festeggiare la nascita di una figlia femmina. La cucchia era rigorosamente di forma ovoidale, con uno spacco centrale a simboleggiare la fertilità femminile.

Nel '500 il pane di grano duro veniva erroneamente considerato di scarso valore nutrizionale e di esclusivo uso dei poveri. Gli ingredienti di questo pane prevedono 1 kg di farina di Majorca, 300 gr. di zucchero, acqua q.b., 200 gr. di lievito di pane, 50 gr. di semi di anice (ma in alcune province vengono usati i semi di sesamo, ciciulena), sale e 2 albumi d'uovo sbattuti. La lavorazione di questo pane è la stessa dei giorni nostri, ma ha una particolarità: prima di essere passato al forno viene immerso nell’acqua calda dove sono stati messi gli albumi sbattuti.

Unitamente al pane si preparano molte pietanze, più o meno ricche, a seconda del censo delle famiglie.

Con il giorno di Pasqua finisce la quaresima, e con essa le privazioni quaresimali; le pietanze così costituiscono un riscatto anche dai torpori invernali. Le ricette sono molto elaborate e sostanziose, in particolar modo nelle famiglie che possono permettersi il monsu (cosi viene denominato il cuoco di provenienza piemontese, dopo l'unità d'Italia). Le ricette restano quelle nate sotto le varie dominazioni, e i loro nomi ne sono la conseguenza. U sciusceddu è una minestra messinese a base di carne di pollo, uova e ricotta, tramandata dalla dominazione francese. Il tegame pasquale d'Aragona, in provincia di Agrigento, è costituito da una quantità spropositata di uova, zafferano, cannella (forse di tradizione araba?).

I protagonisti assoluti delle mense sono l'agnello, il capretto e il montone, ma il loro consumo è strettamente legato alla condizione economica della famiglia. L'uso di carni ovine è comune a tutti i popoli del bacino mediterraneo; già gli Ebrei le consumavano con erbe amare e pane azzimo nell'esodo. Le ritroviamo anche sulla tavola dei romani, dei greci, nelle tradizioni delle popolazioni balcaniche e in molte altre. L'agnello è presente in quasi tutte le ricette regionali e, in tempi passati, veniva consumato, per dirla in termini moderni, dal ceto medio. In Sicilia viene consumato con alcune varianti a secondo del bacino d'appartenenza, secondo la contrada, seguendo le ricette di famiglia. Nel ragusano si prepara l' impanata pasquale di origine spagnola, una focaccia con base di pane lievitato, ripiena di stufato d'agnello, l' agneddu aggrassato con patate e cipudduzza; nell'area messinese e catanese senza patate; nel palermitano l'agneddu si fà arrustutu; nel trapanese alla menta, ma i meno abbienti debbono accontentarsi dell'interiora dell'agnello e cosi preparano u pastieri, u turciniuma; infine i poverissimi debbono accontentarsi, se va bene, del montone, altrimenti soltanto del suo brodo, tenuto in grande considerazione nell'alimentazione delle puerpere in quanto gli vengono attribuite proprietà di antianemiche.

Tra i vari ovini, il ruolo d'eccellenza spetta al capretto, una volta riservato solo alle mense dei ricchissimi, oppure servito in occasioni di rilievo come un matrimonio, una laurea, l'arrivo di un ospite (considerato sacro). Ancora oggi in tutto il sud Italia, il benvenuto all'ospite viene dato con il capretto. Una volta chi non poteva attenersi a questa ferrea regola, s'impignava "a roba” , cioè portava al monte di pietà il poco oro di famiglia o un lenzuolo bonu du corredu (il lenzuolo buono del corredo, cioè quello della prima notte di nozze, particolarmente ricamato, con pizzo a tombolo, con pizzo a filè, con intarsio a punto rechialier).

Nella tradizione siciliana i dolci pasquali hanno un certo rilievo per il loro significato e simbolismo: si passa dalla morte alla resurrezione, un esempio ne è l'agnello dolce che imbraccia lo stendardo della resurrezione. Come moltissimi sono i dolci legati al giorno dei morti, i bambini aspetteranno tutta la notte, perché soltanto tra la nottata tra il 1 e il 2 novembre i morti porteranno loro in dono dolci di marzapane coloratissimi, biscotti con pistacchi di Bronte, i totò odorosi di garofano; poi (come gli adulti) anche i bambini dovranno aspettare nuovamente Pasqua per assaporarli. A Natale, infatti, si usavano pochi dolci e così pure per l'Epifania; in questo periodo la tradizione vuole una cucina semplice e povera, che segua il riposo come le coltivazioni della terra. A carnevale si confezionano dolcetti, e si deroga a questa regola soltanto se in concomitanza c’è la festa del Santo Patrono, come avviene il 5 febbraio, in occasione della festa di Sant'Agata a Catania. Durante la quaresima si possono fare, ma proprio per voler mangiare qualcosina di dolce, i quaresimali e nulla più.

Con l’arrivo della Pasqua , in coincidenza con il risveglio della terra, gli aranceti sono alla loro prima fioritura, cosi pure i mandorleti, piante di grande rilevanza economica. Gli aranceti della conca d'oro, nel bacino palermitano e a Lentini, nel catanese, erano fonte di guadagno e sostentamento non solo per i proprietari. Le esportazioni del prodotto erano massicce, e il plus che restava sull'isola veniva conservato e lavorato nei modi più disparati. Così anche per le pregiate mandorle d'Avola, base per i confetti utilizzati in occasioni matrimoniali che coinvolgevano famiglie decisamente ricche, considerata la scarsa produzione ed il beneficio economico dell'esportazione. Venivano esportati anche i pistacchi di Bronte ed il miele di Zagara (bacino etneo), dal retrogusto amarognolo, impiegato nell'alta pasticceria locale.

Con il plus rimasto, tutte le famiglie a Pasqua imbandivano le mense con una quantità spropositata di dolci, distinguendo anche in questo caso le tradizioni sulla base del censo.

Classico alle mense dei ricchi è l'agnello casalingo di mandorle recante lo stendardo della resurrezione, quello che possiamo vedere sulle acquasantiere nelle ceramiche di Caltagirone. Nelle famiglie povere veniva confezionato l'agnellino di pasta di zucchero con tanti chiodi di garofano, affinché la spezia smorzasse il retro gusto della tanta farina rispetto al poco zucchero usato.

Altri dolci tipici pasquali erano "i pupi", legati alla francese Chanson de Roland e al teatro dei pupi. Anche i "pupi" venivano confezionati secondo la condizione economica delle famiglie. I ricchi, si fa per dire, preparavano u pupu cu l'ovu, (la denominazione del dolce però cambia da paese a paese o addirittura contrada.) Si possono infatti chiamare: cannareddi, aceddi con l'ova, cuddura, cudduredda, panareddi; gli ingredienti base erano farina, un uovo col guscio, che veniva posizionato al centro du pupu che poteva assumere varie forme: un agnello, un uccello, una colomba. I pupi, nella versione più o meno ricca, erano rifiniti in modo sorprendente con piume, carte dai colori decisi, spade fatte con carta stagnola, bocche, nasi, occhi marcatamente variopinti con colori vegetali. In tutto questo contesto troneggia la cassata, anche questa più o meno ricca di frutta candita, accompagnata dal nastro verde di marzapane, oppure in versione povera, fatta di pasta di pane colorata di verde. Una regola ferrea voleva che la cassata venisse fatta soltanto per Pasqua, perché la ricotta di pecora adoperata doveva essere prodotta in questo periodo dell'anno, non solo per la migliore consistenza, ma per il sapore dell'erba brucata al pascolo che la rendeva più gustosa.

Osservando i ricettari dei dolci siciliani si resta stupiti dall’enorme quantità di ricette presenti. È evidente che i siciliani siano golosi, anzi golosissimi, e questo lo debbono sicuramente alla dominazione araba e a quella spagnola.

Una nota curiosa infine: le mense non vengono sparecchiate dopo il banchetto, ma soltanto ripulite dai resti, che verranno bruciati nel fuoco del camino, affinché si purifichino.

Per i siciliani la Pasqua predomina su tutte le altre festività, tanto che chi vuole maliriri un cristiano (chi vuole imprecare, ma il verbo esatto è maledire una persona) gli augura na mala Pasqua, cioè una cattiva Pasqua: questo è il massimo del disprezzo, il peggiore augurio! Per farsi un’idea della forza di questa maledizione, basta ascoltare la "Cavalleria Rusticana" melodramma musicato nel 1890 di Mascagni, dalla novella di Giovarni Verga, dove Santuzza augura na mala Pasqua nella scena della preghiera. Ma la Sicilia è anche quella cantata da Goethe, in viaggio in Italia nel 1787: nza vedere la Sicilia non è possibile farsi un'idea dell'Italia. La Sicilia è le chiave di tutto”.



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