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 Anno II n° 16 del 21/09/2006    -   TERZA PAGINA



Venezia

Di Serena Bertogliatti



Difficile ricercare l’etimologia della parola; ci piacerà pensare che è antecedente alla Creazione, e così sarà la città: sorta dal nulla, al di fuori della storia e monumento alla stessa.
Perché a Venezia non serve fantasia, ecco qual è la magia.
Perché – diciamocelo – è errato dire che Venezia è una città bellissima.
E’ una fogna a cielo aperto. Ce lo ricordano le fasce d’alghe che contornano le case e le calli all’altezza del canale, il rattus norvegicus che di tanto in tanto fa capolino sul nostro percorso, e quell’odore tipico della laguna che certamente si può amare, ma mai ci sogneremmo di vendere in boccette come deodorante. Piazza San Marco è un nugolo di piccioni che, intrepidi turisti che se ne fanno ricoprire come novelli San Francesco a parte, non sono certo la crème dei volatili ornamentali – nè si ode di serate a teatro ad ascoltare concerti delle tubanti creature.
C’è poi l’umidità, l’acqua alta nella cattiva stagione, gli ingombranti turisti. Eppure…
Eppure si dice e si ripete, e lo si fa con occhi sognanti, s’invoca e si onora: Venezia è una città bellissima.
Perché cammini in un mondo parallelo.
Ti diranno, turista appena giunto:
“L’unico modo di visitare Venezia è perdersi per le calli.”
E ti dirà, spesso la stessa persona:
“A Venezia non ci si può perdere.”
Troppo piccola questa città intrisa di storia, in cui i palazzi più alti sono quelli della Giudecca – costruiti come grattacieli perché non c’era più spazio in orizzontale. Sapevate che la parola “ghetto” viene da questa laguna? Idioma veneziano per “getto”, “colata” - perché in questo quartiere fu installata una fonderia di metalli – e l’arrivo, poi, della minoranza ebraica non fece che far adattare questa parola al popolo esiliato all’interno della città.
Un’altra parola d’uso moderno e comune deve ringraziare queste isole: “ciao”, contrazione di “sciavo vostro”, saluto esageratamente ossequioso con cui mostrarsi a completa disposizione della persona incrociata per le calli.
Venezia rinomata per l’ospitalità, così abituata, porto franco mercantile, ad accogliere ogni genere di straniero.
Vi dimorò l’amante della redenzione, Francesco Petrarca; vi si rifugiò l’eretico Giordano Bruno, uno dei pochi a cui la tollerante Repubblica porse il cappio per la punizione di Santa Madre Chiesa; Casanova visitò i Piombi, carceri rinomate per essere accoglienti come ostelli, e fuggì nuotando nel canale; vi soggiornò l’eroe dannato Lord Byron, così consono con la propria fama alla libertina Venezia; Goethe scrisse a lungo del suo periodo di residenza qui, in attesa di rimanere nella storia come genio compositore del Faust. E ancora: Wagner, Proust, Maupassant, Stendhal, Nietzsche, e altri nomi di tale fama da ampliare quelle di Venezia – o forse è stata la magica città a donare un po’ del proprio credito.
Baluardo del libero pensiero e del libero costume – così libero da aver creato il corrispettivo della geisha orientale, la cortigiana – che, immaginiamo, doveva essere annoverata tra le meraviglie da visitare (pensiamo a una “guida” stampata nel 1570 ad uso dei turisti, ed intitolata Catalogo di tutte le principali et più honorate cortigiane di Venezia). Buona cultura e dialettica, conoscitrici della musica e della rima, più rispettate di molti honorati uomini dell’epoca, avevano il diritto di scegliere i propri clienti. Non è forse Venezia città della libertà?
Così libera da cadere sotto l’interdetto di Papa Paolo V, che vietava la celebrazione delle messe, e reagire disconoscendone il valore e scacciando dai propri territori chi preferisse seguire il volere del Papa anziché quello del Doge.
Libera fino all’eccesso, allo stremo, allo sfarzo: esosa in tal modo da portare il governo a promulgare una legge che imponesse il nero come colore delle gondole, tale era la decorazione che i Patrizi sfogavano sul principale mezzo di trasporto per onorare la propria onorata casata.
Non ci stupisce sapere che a tutt’oggi Venezia è rinomata per quell’aura Rococò. Non difficile eccedere nel lusso e nella stravaganza dettagliatamente curata se si è in quella che fu una Repubblica Marinara, centro di culture e commerci, e a poche bracciate di laguna si ha Murano – dove acquistare sculture di vetro per rilucere oltre che di luce propria – e ad altre poche bracciate si ha Burano – dove concludere l’opera arricchendosi dei sapienti ricami e merletti, immancabili se si vuole partecipare al Carnevale con una Maschera che si noti.
Maschere, elemento non sottovalutabile se si è abituati a vivere a Venezia, che ha mille aspettative, ma che ha dovuto, accrescendosi, comprimersi su se stessa, con il risultato d’avere la finestra del vicino a un metro dalla proprio.
Si può avere vera intimità in una città che non ha angolo che non sia conosciuto – usato per essere riconosciuto, e quindi non perdersi nel labirinto di calli – e che è preda abituale di curiosi turisti da tutto il mondo?
Lasciate da parte pizzi e merletti, e colori e variopinte stoffe, e pensate: poter essere, un giorno, una qualsiasi persona. Disconoscere, col semplice gesto di coprirsi il viso, se stessi, per vagare senza meta nell’agiata veste dell’anonimato.
Tutto è permesso alla Festa dei Folli.
Sono tante le maschere tipiche, ma tra queste s’insinua, come una mosca sulla tavola imbandita, quel costume riconoscibile per avere un naso allungato, lungo come quello del comico Cyrano De Bergerac, ma che nacque in circostante per nulla comiche: la peste.
E quel naso così sproporzionato, così adunco e proteso, era la salvezza dal contagio: vestiva i dottori, riempito nella sua cavità di erbe, in modo che la malattia non venisse trasmessa.

E’ un memento mori, nella Venezia di oggi che nulla ha da temere ormai dalla Morte Rossa, ma che accoglie nella propria festività una briciola di funesto presagio.
Perché Venezia non è semplicemente bellissima.
Venezia ha la magia di raccogliere in sé sublime bellezza e gli atroci sacrifici che durante la storia ha dovuto compiere per essere, oggi, un mondo che nel piccolo ridisegna le leggi di quello grande.

Le foto sono di Giovanni Gelmini - ©vietata riproduzione



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