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Le comunità virtuali esistono davvero?

Sociologi e psicologi ne fanno materia di studio, il virtuale acquista la dignità del reale, e i pericoli crescono

Di Anna Cosseddu

Le comunità virtuali sono un fenomeno ormai largamente diffuso anche in Italia. Tutti i portali Internet hanno la loro community, e anche siti prettamente “specializzati”, come ad esempio Studenti.it e Html.it, hanno man mano allargato lo spazio dedicato alla comunicazione tra utenti.
Perché?

Semplicemente perché le comunità virtuali portando alla fidelizzazione dell’utente si rivelano risorse importanti per ogni web-master: il visitatore occasionale infatti, creando legami di conoscenza, amicizia, scambio di opinioni con gli altri utenti, sarà invogliato a tornare nello stesso sito tutti i giorni, anche più volte al giorno, incrementando così gli introiti pubblicitari.

Ma è solo una mera questione di soldi? Dal punto di vista dei visitatori queste comunity non rappresentano per caso qualcosa di più? Le comunità danno la sensazione all’attore/utente che esista un luogo specifico, del quale si sente parte integrante e al quale si affeziona. Nascono legami di collaborazione e amicizia, anche profonda. Si superano le distanze, si superano i limiti creati nella vita reale dal sesso, dallo status sociale, dal proprio aspetto fisico, e ci si può confrontare anche senza incontrarsi mai.

Secondo la famosissima definizione di Howard Rheingold, psicologo della conoscenza e autore di numerosi libri sulla conoscenza, la tecnologia e le comunità virtuali, «le comunità virtuali sono aggregazioni sociali che nascono da Internet quando un certo numero di persone intraprendono discussioni pubbliche abbastanza a lungo e con sufficiente coinvolgimento emotivo da formare reti di relazioni personali nel ciberspazio». Ma le comunità virtuali quindi esistono davvero?

Molte sono state le polemiche sorte tra i sociologi, soprattutto quelle riguardanti il significato della parola comunità e la possibilità che questa parola possa venire applicata a persone che in realtà non hanno in comune un territorio geografico, nè una storia, nè i valori che generalmente sono dati da una religione comune. Ma dopo lunghi dibattiti ancora in corso, la considerazione che va per la maggiore sembra essere quella secondo la quale il termine comunità è un termine talmente vago che le sue applicazioni possono essere molteplici. Inoltre, le comunità virtuali non devono essere considerate come comunità legate allo spazio, alla fisicità, ma piuttosto al livello mentale dell'individuo.

Appunto per dare una più solida base teorica alla definizione di comunità virtuali, molti sociologi ne hanno fatto oggetto di studio, e tra questi Quentin Jones, dell'Università Ebrea di Gerusalemme, e Geoffrey Z. Liu, dell'Università Statale di San Jose hanno dato un grosso contributo. Liu, rielaborando le teorie di Jones, ha elencato le condizioni che si devono venire a creare perché i gruppi nati intorno alla comunicazione mediata dal computer possano essere definiti non più semplicemente gruppi, ma comunità:

Gli spazi pubblici
Gli spazi pubblici comuni sono, per Jones, spazi simbolicamente delimitati, condivisi dagli utenti per interagire e formare relazioni. Le CMC forniscono molti spazi che possono svolgere questa funzione. Jones non specifica il significato che per lui ha la parola "pubblico", ma per Liu potrebbe semplicemente significare che questi spazi condivisi sono aperti a tutti i membri della comunità: in questi spazi tutti i membri della comunità possono entrare per interagire con gli altri. Come nel mondo reale, in rari casi qualcuno può essere escluso dall'ingresso perché manca di particolari requisiti (per esempio in alcune stanze IRC si può entrare solo tramite invito), o può essere cacciato perché non rispetta le regole della comunità, ma per tutti gli altri membri l'ingresso è libero, quindi il luogo può definirsi pubblico.

La varietà dei comunicatori
I comunicatori devono essere tanti e fedeli. Neanche nel mondo reale si può definire comunità un gruppo formato da due o tré persone che si incontrano sporadicamente in un bar, ne tanto meno si può così definire un gruppo che intavola una discussione per brevissimo tempo. Le comunità devono essere consolidate, e i partecipanti devono essere numerosi e stabili frequentatori.

I confini
I confini delle comunità virtuali sono difficili da definire. Non e detto che una discussione o un canale indichino l'esistenza al suo interno di una comunità, e non è facile capire in quanti canali e discussioni interagisca una comunità.

La stabilità dei membri
Anche la stabilità dei membri è una caratteristica non facile da definire: non è detto infatti che tutti i nick presenti in un canale facciano parte della comunità, potrebbero essere solamente visitatori occasionali o potrebbero non partecipare a nessuna attività comunicativa. Quindi un utente, per essere considerato membro di una comunità deve essere un membro partecipante: deve interagire ed avere una presenza costante, tale da consentire lo sviluppo di relazioni personali con gli altri utenti. Per quanto riguarda la comunicazione sincrona (cioè in tempo reale, come accade appunto nelle chat), Liu affianca alla stabilità dei membri, la stabilità della compresenza: in questo caso infatti, perché le relazioni personali si sviluppino, non basta frequentare abitualmente lo stesso luogo, ma occorre anche frequentarlo negli stessi momenti.

Un livello sufficiente di interattività
Jones afferma che un livello minimo di interattività è un prerequisito di una comunità virtuale. L'interattività è definita come l'interconnessione tra i messaggi: descrive e prescrive il modo in cui l'interazione porta alla definizione di significati condivisi. Nella comunicazione mediata dal computer i messaggi non sono unicamente verbali, esistono anche tecniche per simulare un'azione descrivendola e determinati comandi che consentono di far apparire un'azione. Sebbene parlare ed agire appaiono sullo schermo come linee di testo, i messaggi che ne nascono sono di natura diversa e rappresentano diversi tipi di interazione nello spazio virtuale. Un'analisi dell'interattività dell'IRC deve comprendere quindi sia i messaggi verbali che quelli d'azione.

La stabilità dei nickname
Un altro requisito dell'esistenza della comunità virtuale, e forse il più affascinante, è costituito dalla stabilità dei nickname. Nelle chat-line, e più in generale nella comunicazione mediata, tutte le attività vengono riferite all'attore, mediante il riconoscimento del suo nickname. Più frequentemente un utente cambia nome, maggiori saranno le difficoltà di sviluppo e mantenimento delle relazioni all'interno della comunità.

In effetti il mondo virtuale che nasce intorno alla comunicazione mediata dal computer dà una libertà impensabile nel mondo reale: quella di crearsi un’identità partendo da zero. Basta scegliere un nome (un nickname, abbreviato in nick), premere invio e l’identità nasce. Basta sceglierne un altro, premere ancora invio ed ecco che un’altra identità è pronta se lo si desidera per una rappresentazione completamente diversa. Il nickname quindi non è semplicemente una serie di caratteri in successione casuale, ma una vera e propria maschera, ricca di significati e densa di caratteri, forme e storie affascinanti da raccontare. Non potendo mostrare agli altri interlocutori informazioni come il sesso, l'età, l'accento, l'abbigliamento, il nickname suggerisce, mette in risalto, nasconde particolari della personalità di chi l'ha scelto.

Ma come scrive Haya Bechar-Israely, del dipartimento di Comunicazione e Giornalismo dell’Università Ebrea di Gerusalemme, che ha a lungo studiato il fenomeno dei nickname: «Le persone possono costantemente cambiare la propria identità, possono giocarci se scelgono di farlo. Tuttavia […] la maggior parte degli utenti tende a conservare un nick e un’identità per un lungo periodo di tempo, e ci si lega profondamente. Quindi, nonostante la chat consenta ai propri partecipanti la libertà di giocare con le identità, le persone solitamente preferiscono l’attributo sociale di un’identità permanente e riconoscibile».

Dando così certezza e stabilità alla comunità alla quale appartengono, e a se stessi.

Sarebbero molte altre le osservazioni da fare, e molti altri sarebbero gli studi da citare, ma fermiamoci qui. Questi pochi esempi possono bastare per dare una prima conferma a quello che tutti noi, anche grazie alle sensazioni ed emozioni che proviamo quando “navighiamo”, di sicuro pensiamo: si, le comunità virtuali esistono. Sono forti, e possono essere a buon diritto affiancate alle comunità reali, possono essere studiate, e soprattutto possono essere vissute.

E forse è per questo, per la capacità che hanno di coinvolgere emotivamente i partecipanti e per il loro essere fortemente reali nonostante il virtuale, che purtroppo, anche troppo spesso come abbiamo visto dallo studio del professor La Barbera, l’utente può anche ritrovarsi ad essere prigioniero: prigioniero di realtà virtuali che distruggono quella reale.

La sfida è aperta quindi, ed è da combattere su più fronti: da parte degli studiosi occorrono ancora studi e ricerche, da parte degli utenti adulti occorre puntare sulla moderazione e, forse più importante, da parte dei tutori degli utenti più giovani occorre un occhio più attento e un’attenzione maggiore ai particolari. Senza però cadere nell’eccesso opposto della demonizzazione dei mezzi di comunicazione. Come sempre, da sempre e per sempre… in medio stat virtus.

Argomenti:   #internet ,        #sociale ,        #società ,        #stile



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