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 Anno III n° 5 MAGGIO 2007    -   TERZA PAGINA



I Sepolcri
Da un semplice avvenimento, una corona di fiori sulla tomba di Michelangelo, una riflessione sulla memoria, la morte ed i sepolcri
Di Serena Bertogliatti


Il 7 marzo di quest’anno, a Firenze, è stata deposta una corona di fiori sulla tomba di Michelangelo, in commemorazione. Eminenti personalità hanno posto una corona di fiori sui suoi resti, e l’assessore Giani ha detto: “Pur non essendo nato a Firenze, ma a Caprese il genio di Michelangelo si è identificato con l’immagine e il profilo della città di Firenze. L’opera più significativa è il David che rappresenta lo spirito di libertà che ha sempre caratterizzato lo sviluppo della sua architettura nella nostra città. Per questo ritengo che d’ora in poi questo anniversario debba essere ricordato per rendere merito a un grande personaggio.

Era l’estate del 1806 quando Ugo Foscolo scrisse:

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?

L’opera è conosciuta: “I sepolcri” - è il concetto espresso ad averle reso fama più che la lettura scolastica, perché Foscolo solleva con il carme (così lo definì) una questione propria dell’umanità, inevitabile com’è inevitabile la morte - ed è la morte, per l’appunto, a porre questa riflessione nel pensiero umano.
Il singolo individuo, chiunque esso sia, muore.
Ci si raffigura la morte in mille modi, e molti di questi contemplano una falce che miete in eguale modo sia gli arbusti che sfiorano il terreno che quelli più svettanti e maestosi. C’è un unico modo di protrarre la vita, ed è tramutarla in memoria.

Le commemorazioni e gli anniversari avrebbero questo come scopo: riportare alla memoria. L’ufficializzazione di una data tramite un’ufficiale cerimonia vorrebbe essere occasione rituale di riflessione più o meno collettiva, perché la storia, i gesti e le creazioni di chi fu non risultino vane.
Purtroppo, un rituale collettivo che non richiami l’individuale partecipazione interiore si risolve in una pedante procedura social-burocratica, il cui destino è più essere punto di snodo di ospiti importanti che momento di riflessione comune su un concetto; perché di Michelangelo, e di qualsiasi altro morto che si commemori, non ci rimane che l’idea riflessa nelle opere create: queste sono gli unici dati tangibili, volendo omettere un’adorazione dinnanzi alla sua tomba.
Il sepolcro, attualmente e nella nostra cultura, ha come luogo fisico (ossia: la tomba) un valore sentito all’interno del nucleo famigliare e della cerchia di amici: è il luogo in cui andare a visitare i defunti, che non sono di solito troppo lontani da noi temporalmente.
Una cappella di famiglia può contare antenati di un passato remoto, ma sempre e comunque troppo vicini a noi se si considera quant’è lunga la storia dell’umanità.

Michelangelo fu un propulsore.
La sua valenza in qualità di artista non risiede nella bellezza della singola opera da rimirarsi a se stante. L’opera riesce - in quanto sepolcro di Michelangelo - a richiamare l’opera dell’uomo, ma perché questo suo valore abbia una risonanza oggi, e non venga invece letta come una pedante seppur bella anticaglia impolverata, si necessita la comprensione del suo valore storico per la storia dell’umanità.
Allo stesso modo, una tomba spogliata dai valori culturali e religiosi, tende inevitabilmente a essere un pezzo di roccia, o cemento, o legno, ospite di un corpo che di vivo e organico - dopo secoli e secoli - ha quanto il materiale che lo protegge.
Sarebbe stato più utile come concime - meno ingombrante come mucchietto di cenere - ma si è scelto, ed è una scelta che molte culture e popoli hanno preso, di sacrificare un pezzo di terra per dargli un luogo in cui risiedere per secoli e secoli.

“Seppellire” in origine significava “rendere onore”; era impossibile scindere le due cose.
Siamo ben distanti da un’ottica che ci permetterebbe di vivere un culto dei morti: non esiste più quell’attaccamento al ceppo di appartenenza che rende sacri i resti dei parenti defunti, e sacro ciò che hanno fatto in quanto permette a noi di essere ciò che siamo.

Dal culto dei morti a oggi si è passati per il riconoscimento al feudo dei valori che altrimenti sarebbero stati garantiti dalla famiglia; dal feudo si è passati al regno, e alla nazione, e al ceppo, alla razza, fino ad arrivare alla globalizzazione.
La com-passione provata davanti alla tomba di un parente non sfonda più il tempo andando a ritroso fino a riconoscere tramite il caro defunto i segni stessi di un Credo che accomuna tutti, ma è invece un dolore individuale che ricorda l’individuale perdita di una persona amata.
Al sentimento non si accompagna un valore culturale che sia memento e consiglio per chi rimane in vita; il sentimento viene vissuto quale moto solitario, fine a se stesso e quindi inutile. E quindi da evitarsi, se possibile, non fosse che il dolore non è un’opzione ma un passaggio.

Quel che la storia può insegnare - intendendo con storia tutto ciò che ci ha preceduto e che possiamo conoscere solo tramite fonti indirette - è quale sia il valore di oggi. Sarebbe eccessivo e pedante dire che s’impara dagli errori passati, e quindi che guardando a ciò che è stato fatto sia possibile evitare l’errore nel proprio percorso ed essere sempre e comunque vittoriosi.
L’errore, come il dolore, non è un’opzione - ma entrambi, vissuti e superati con coscienza, rendono l’individuo cosciente di cosa nel proprio sangue scorra.

Il sepolcro dovrebbe essere non in lapidi dimenticate fino all’annuale anniversario; il sepolcro dovrebbe essere il modo in cui ognuno comprende quanto è in grado di fare per modificare l’avvenire.



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