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 Anno III n° 6 GIUGNO 2007    -   IL MONDO - cronaca dei nostri tempi



Perché non arrivano gli investimenti esteri in Italia?
Le principali cause sono l’incertezza normativa e il dirigismo economico da parte della politica. Un confronto con gli Stati Uniti
Di Giacomo Nigro


Nel periodo 2000-2004 l’Italia ha ricevuto il 2 per cento del totale degli investimenti diretti esteri pervenuti nell’Unione Europea, a fronte del 6 per cento ciascuno di Francia e Germania, 7 per cento della Spagna, 9 per cento dell’Olanda, 14 per cento del Regno Unito. Cosa scoraggia gli investimenti esteri in Italia?

Sicuramente l’incertezza normativa, ma ciò che in realtà preoccupa di più gli investitori internazionali sono gli interventi diretti del governo in decisioni che dovrebbero essere di esclusiva competenza delle imprese e ciò quando è oramai finita, con l’uscita di Fazio, la fase protezionistica della Banca d’Italia.

Questo non è irrilevante: a titolo esemplificativo notiamo che lo scorso anno il governatore Draghi ha abolito l’obbligo delle banche di informare la Banca d’Italia prima dei loro consigli d’amministrazione delle manovre di fusione fra aziende. D’altro canto si è avuta la netta impressione che il governo si sia appropriato del diritto all’informazione preventiva del quale la Banca d’Italia si era spogliata.

Questa accusa di dirigismo economico da parte della politica è stata rivolta chiaramente al presidente del Consiglio Prodi il quale si è così espresso: “posso assicurare che interveniamo molto meno dei paesi che ci fanno la predica e che ci sono ventuno settori negli Stati Uniti in cui lei non può investire” all’indirizzo del governatore Draghi il quale aveva affermato: "Un sistema finanziario moderno non tollera commistioni fra politica e banche".

Negli Stati Uniti i settori in cui esiste qualche limitazione agli investimenti esteri in realtà sono sedici, non ventuno come si dice; in sei casi su sedici, le imprese protette operano in settori molto particolari: dogane, reattori nucleari e impianti di arricchimento di combustibile nucleare, comunicazioni satellitari, società che offrono garanzie agli investimenti in determinati paesi in via di sviluppo.

Tra questi sei settori, quelli che non sono militari, o affini, sono agricoltura e pesca, settore nel quale società non americane possono operare, ma sono escluse dagli aiuti di Stato e il trasporto aereo e marittimo a piccolo raggio, cioè interno agli Stati Uniti, l’unica vera restrizione rilevante.

Negli altri dieci settori esistono restrizioni, ma sono più deboli: in generale è richiesta semplicemente la reciprocità. Per citare un esempio recente, sebbene radio e televisioni siano indicate come un settore al quale si applicano talune restrizioni agli investimenti esteri, nessuna autorità Usa ha sinora sollevato obiezioni al progetto dell’australiano Robert Murdoch di acquistare la società che possiede il Wall Street Journal e che controlla numerose stazioni radio negli Stati Uniti.

E’ importante annotare che le restrizioni americane, ove esistono, sono determinate a norma di legge. Un investitore conosce quindi con certezza dove potrà e dove non potrà investire.

Da noi, sono questi i giorni in cui governo e opposizione sono sottoposti dalle rivelazioni di stampa ad un fuoco di fila che partendo dalla pubblicazione delle cosiddette “intercettazioni telefoniche” tentano di mettere a nudo colpe politiche di intervento diretto al controllo dell’economia bancaria e dell’informazione.

Il rischio che il conflitto fra politica, magistratura e stampa degeneri è molto alto e il sospetto che lobby economiche non tanto nascoste stiano spingendo sull’acceleratore per far comprendere dove è il vero potere è abbastanza trasparente.

In una situazione così complessa l’investitore internazionale tende quantomeno a prendere tempo se non a deviare tout-court la sua attenzione in altri lidi.



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