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 Anno III n° 11 NOVEMBRE 2007    -   TERZA PAGINA



La puttana

Di Adriana Di Mauro


Forse era già estate, o ancora primavera. Una calda fine di primavera. Di giorno, al sole, si avvertiva la pelle bruciare sotto i raggi e alzare gli occhi al cielo era impossibile, quasi doloroso dopo una notte di alcol e insonnia.

Faceva caldo. Sotto l'ombra una lieve tregua che presto diventava fresco, allora si cercava di nuovo il tepore del sole e si stava lì sotto, immobili come lucertole, finché nuovamente diventava insostenibile essere bagnati dai suoi raggi. Era una danza continua di uomini-rettili, che a sangue freddo guardavano un uomo trascinarsi lungo le strade barocche di Noto.
Era un'ombra, incapace di stare in piedi, come una trottola, si sosteneva ai muri e a qualsiasi appiglio si prestasse: portoni, vecchie sedie impagliate, persone che, inorridite e quasi offese dall'oltraggio, lo strattonavano.
Barcollando proseguiva lungo il suo percorso. Non ricordava bene quale fosse, ormai ne fiutava le tracce, come un vecchio segugio cieco che per istinto ritrovava la strada di casa.
Cadeva a terra, ritrovandosi faccia a faccia con un cane, che ringhiava per paura che gli rubassero il pasto giornaliero faticosamente trovato: un osso con brandelli di carne putrida.
Si rialzava con fatica e riprendeva il cammino ora in posizione eretta, ora trascinandosi sulle ginocchia, finché non giungeva all'uscio familiare, ma non dal portone, in quello stato colori e forme si confondevano fino a divenire figure astratte, quanto per l'odore inconfondibile che possedeva.

Nella piccola casa di periferia entrava l'ombra sfocata di quello che era stato un grande artista.

Lei era una puttana, raccolta in una famosa via di Catania. L'aveva vista e aveva deciso di portarla con sé. Era stata una musa, con la bellezza prorompente delle donne del sud.

Il sangue mischiato a quello arabo aveva generato quelle della sua razza, unica al mondo, dove la carnagione scura dipingeva sul volto delle ombre che le rendevano misteriosi e carnali, con l'intensità quasi insostenibile degli occhi di carbone.

Era femmina. Era come la terra... fertile, profumata, calda e morbida. Toccare una sua coscia era come affondare le mani in una zolla argillosa, plasmarla mischiandola all'acqua per creare nuove forme di fango. Lei era fango.
Aveva fatto una scultura di quel fango, un'opera d'arte vivente. L'aveva ritratta in tutte le pose, caste, oscene. Aveva dipinto i suoi seni, pesanti, dai capezzoli scuri e le aure grandi, da donna negra. I capelli crespi e folti, neri, come i peli pubici che nascondevano il segreto. Aveva dipinto anche la parte sua più nascosta, mostrandola al mondo, trionfante, come tributo al suo amore. Era sbocciata sotto al suo pennello, viva e rossa, succosa come i pomodori messi a seccare sulle terrazze, carnosa, dal sapore acre. Aveva dipinto il suo sesso e la sua bocca, confondendoli, come anche il suo corpo aveva fatto amandola.

Gli aveva dato sesso, amore e arte. Ma tutto era finito.
La puttana non riusciva più a dargli altro che un corpo scopato da centinaia di uomini, non possedeva più la luce prepotente dell'ispirazione. Era una donna come tutte, spodestata dal ruolo di femmina, possessiva e avida. Vorace nel letto e fredda nel cuore.

Non riusciva più a creare, a causa di quell'amore morboso, e beveva. Beveva tutta la notte, fino a rientrare al mattino troppo stordito per darle quello che pretendeva.
Quella puttana l'aveva consumato, rendendolo un fantoccio nelle mani di una burattinaia incapace di inventiva e interpretazione.
La fissava dalla sedia su cui si era accasciato, nell'angolo più buio di quella stanza sporca invasa dalle mosche. Un tavolo traballante sosteneva appena le sue braccia che nascondevano il volto.

Lei era sdraiata sul letto, svestita. Era inespressiva, come un cadavere. Alcune mosche si posarono sul suo sedere tondo e sodo. Lo guardava.
Cosa pensasse o se ne era capace, restava un mistero. Lo sguardo perso nel vuoto che l'aveva resa misteriosa all'inizio, ora la rendeva un oggetto inanimato.
Il sole bussava prepotente alle persiane semichiuse. Con un sospiro pesante lei si alzò e aprì, violando l'oscurità omertosa della stanza.

La osservava prendere il pane, tagliarne una fetta e posare il coltello sul tavolo. Riempire un bicchiere dell'acqua conservata nel “bummulu” e bere tanto in fretta che lucidi rivoli fuggivano dagli angoli della bocca. Spalmava sulla fetta di pane l'estratto di pomodoro, crema rossa, saporita e voluttuosa, senza guardarlo e con una lentezza carica di tedio.
Mangiava, mordeva e masticava. Ingoiava, seduta di fronte, senza dire nulla, posando ogni tanto lo sguardo nauseato su di lui.
Sazia, tornò a tuffarsi nel letto provocando un rumore stridente di ferro.

Orlando Saia non riusciva più a orientarsi in quel mondo offuscato dall'alcol. Si sentiva ogni giorno più sopraffatto dalla vita e dalla mancanza di ispirazione. La voragine tra le gambe di quella donna gli aveva aspirato anche l'anima.
Guardava l'orologio affisso al muro che scandiva i minuti della sua agonia. Era giunta l'ora ormai di porre fine a tutto, morire per lei, per amore e senza scampo. La sua era una morte annunciata da tempo da un rintocco assordante. Era il momento di dirle addio.
Prese il coltello dal tavolo e si diresse verso la puttana. Quel che accadde dopo, è un fatto di cronaca...



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