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 Anno IV n° 8 AGOSTO 2008    -   PRIMA PAGINA


Lo sbuffo
Siamo la civiltà della morte?

Di Giovanni Gelmini


Le recenti morti di alpinisti sull’Himalaya sono sconvolgenti e per molti motivi ripropongono un quesito: dove sta andando la nostra civiltà?

Gli alpinisti sanno che la montagna è dura, non perdona. Sanno che non si può inventare, il rischio deve essere sempre ben calcolato e ci devono essere sempre ampi margini per poter superare quello che possiamo chiamare “fatalità imprevedibile”: anche questa si deve prevedere se si vuole tornare a casa. Gli alpinisti sanno che devono essere preparati fisicamente e psicologicamente per superare la paura e mantenere la lucidità. Sanno che le attrezzature devono essere ben collaudate e certe. Sanno che le vie attrezzate possono diventare un pericolo. Sanno... e come mai questa ecatombe?

Alcune accuse lanciate dai sopravvissuti mi hanno fatto pensare: materiale scadente, cordate in fila per raggiungere una delle vette più difficili del mondo il K2 (l’Everest è ormai un “autostrada”), il panico che ha colto gli scalatori, che li ha fatti diventare delle bestie sconvolte e che così hanno trovato morte sicura... perché non erano preparati psicologicamente ad affrontare l’imprevisto? Chi va in montagna sa che l’imprevisto è normale.

Mi sono chiesto allora: perché si sono permessi di affrontare una simile difficoltà? Ovviamente le risposte me le sono date da solo: perché non sanno valutare le loro capacità, perché la scalata è diventata un business e si guadagna su ogni partecipante, ma se qualcuno muore è sempre e solo una fatalità! Tutto è in mano ad un marketing manager che ti fa diventare superabili tutte le difficoltà, fino a quando sei a casa tua, poi non si sa... ma lui non ne ha colpa. Ma gli alpinisti e le statistiche, continuano a diffondere messaggi precisi sul rischio, perché allora non si prendono i giusti accorgimenti?

Oggi sembra che la cultura dominate sia quella dalle sfida: tutti dobbiamo dimostrare si saper sopravvivere oltre al “limite umano”. Poi il limite per ognuno di noi diventa diverso: chi va in “alta quota”, quando è preparato solo per roccia quote minori, chi si butta col parapendio, chi fa il bungee jumping.... chi infine ogni sabato balla per una notte intera o va a velocità eccessive in auto ed in moto.

Se consideriamo l’elenco di modi di “sfidare” sopra ricordato, ci accorgiamo che i primi, quelli che l’immaginifico pone come più rischiosi, non sono particolarmente “pericolosi”, anche in percentuale sui praticanti, producono sicuramente molto meno morti della “strada” e dello “sballo” del sabato sera”: come mai?
Credo che questo avvenga perché alla fine sono attvità ancora sotto il controllo di tecnici che cercano di usare quelle norme di sicurezza che possano ridurre gli incidenti a vera fatalità, ma negli ultimi due, strada e sballo, no!

Oggi è normale che chi si mette in sella a un ciclomotore si senta autorizzato a fare quello che vuole, non seguire regole, superare a destra, andare contromano passare col rosso, andare sui marciapiedi, ecc... , ma non da meno sono i centauri che fremono in coda e vanno ben oltre i 100 km ora nei centri abitati... e gli automobilisti? Non considerano mai che non ci sono solo loro sulla strada e... via di corsa: tanto io sono bravo e attento, ma l’imprevisto? Nessuno ne tiene mai conto e così l’Istat ci dice che ogni giorno ci sono “652 incidenti stradali, che provocano la morte di 16 persone e il ferimento di altre 912”. Altro che qualche centinaio all’anno di altre cause di morte per attività “rischiose”.

E che ne diciamo delle morti per overdose? Troppi pensano che lo sballo sia una cosa “normale” .

Ovviamente sappiamo che sempre, dietro ad una morte, ci sono altre decine di casi di persone che vengono danneggiate in modo irreparabile, sia negli incidenti automobilistici, sia nell’uso delle droghe, sia nella pratica di sport estremi.

Ma allora cosa c’è? Non può essere che questa valanga di morti ed invalidi sia solo dovuta alla singola stupidità. Credo invece che sia la conseguenza di un elemento basilare della nostra cultura: il cercare di essere “mito”, di essere superuomo.

Credo che, grazie allo stimolo continuo operata dai markettari, che devono crearci sempre nuove necessità e devono convincerci ad acquistare per giustificare i loro compensi, l’idea del superuomo lanciata dai Futuristi all’inizio del secolo scorso, sia diventata una frenesia collettiva.
Nel momento che una simile mania diventa collettiva, nel momento che un tranquillo uomo di condomino deve dimostrare di essere un “superuomo”, ecco il disastro collettivo irrefrenabile, irrefrenabile perché per impedirlo si dovrebbe porre un freno alla sete di guadagno.



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