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L’armatura giapponese Saggio tratto dal catalogo della Mostra “FANTASIE GUERRIERE Una storia di seta fra Roberto Capucci e i Samurai dal XVI al XXI secolo - Filatoio di Caraglio, Cuneo, 2008 di Silvana Editoriale Di Francesco Civita
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L’armatura giapponese è sempre stato un mirabile esempio del connubio tra eleganza e funzionalità. Costituita da un elmo, una maschera, due spallacci, due bracciali corazzati, una corazza, di porzioni corazzate per il basso ventre, di cosciali e schinieri, la spettacolarità e il fascino che sprigiona, oltreché per la particolare conformazione delle sue parti, derivano principalmente dalla presenza di due elementi fondamentali, unici nel loro genere proprio per essere parte integrante di un corredo armato: la seta e la lacca.
La loro genialità si espresse solo nel corso del XII secolo in poi quando, da un monopolio prettamente governativo che fino ad allora aveva avuto l'esclusivo compito di ideare e realizzare modelli per equipaggiare le forze combattenti, e la cui produzione era alquanto livellata in quanto non vi erano palesi diversità di forma ed aspetto negli equipaggiamenti destinati alle varie fasce dei combattenti, si passò ad un sempre maggior sviluppo di iniziative private legate all’incalzante influenza territoriale che assumevano i nuovi centri di potere delle signorie ai confini del regno. Questo mutamento di potere e il progressivo indebolimento dell'autorità centrale situata a Kyoto, favorì il nascere di numerose botteghe d'armaioli, legate agli allora sorgenti Daimyō, (signori feudali), le cui realizzazioni per la prima volta poterono esprimersi liberamente. Sappiamo che le botteghe erano organizzate secondo diverse specialità, rigidamente classificate secondo il valore sociale che la specialità comportava; ad esempio, al vertice vi erano i tessitori, coloro che preparavano i tessuti e le fettucce di seta, poi venivano i laccatori, quindi i cesellatori per i fornimenti, cioè le parti decorate in metallo di pregio, i fabbri, posti al quarto posto, ed infine i conciatori di pelle che erano all'ultimo. Da queste notizie, vediamo che i ruoli di coloro che si occupavano delle sete e della lacca erano privilegiati, in virtù dell’importanza che la seta e la lacca occupavano nella società già da allora. Ma quali sono le caratteristiche della seta e della lacca tanto da essere stati scelti per essere parte integrante dell’armatura giapponese? Entrambi presenti nella natura, per le loro qualità la seta e la lacca se lavorati e trattati in un certo modo, diventano materiali di grande resistenza ed elasticità, capaci di sopportare stress meccanici di notevole entità, garantendo protezione e inalterabilità nel tempo. La lacca, in giapponese “urushi” ( 漆 ) è in sintesi, un polimero che si presenta in natura come una linfa viscosa, e viene ricavata dall’albero della Rhus Verniciflua tramite incisioni nella sua corteccia esterna. Lavorazioni e raffinazioni ripetute privano la linfa delle impurità, ricavando alla fine dei vari processi, un liquido trasparente, viscoso, altamente ossidabile, le cui principali proprietà sono l’impermeabilità agli agenti esterni, la durezza e, previo trattamenti di lucidatura meccanica, la lucentezza; la lacca naturale può essere unita a coloranti vegetali e minerali, producendo così una vasta gamma di cromie adattissime a decorare molti oggetti d’arte. Per le sue qualità impermeabili e di resistenza, può anche essere usata per proteggere i metalli, in special modo gli acciai, altamente ossidabili, ad esempio contro l’umidità e la pioggia così frequenti in Giappone. Ma non solo; la lacca, una volta solidificata, è anche un materiale estremamente duro; diversi strati di lacca, in alcuni casi diverse decine, costituivano un’ulteriore protezione insieme alle lamelle e alle piastre d’acciaio delle armature, garantendo grande resistenza alle lame seppur affilatissime delle spade giapponesi. E’ così che la grande maggioranza di armature giapponesi presentano le loro parti completamente laccate, apparendo allo stesso tempo non solo strumenti di guerra, ma anche esse stesse opere di un arte raffinata ed esclusiva. La seta, in giapponese “kinu” ( 絹 ) è una fibra proteica naturale che si ricava dal bozzolo dei bachi da seta della specie Bombix mori o Yama Mayu. La coltivazione dei bachi da seta ha origini lontanissime: si parla addirittura del 6000 a.C., e della leggenda secondo cui la principessa cinese Xi Ling Shi fu la prima ad introdurre l’usanza della bachicoltura. Nonostante che inizialmente la seta prodotta fosse considerata ad uso esclusivo della Casa Imperiale cinese, gradualmente nei secoli seguenti la coltivazione si diffuse per tutto l’Impero, travalicando anche i confini tradizionali ed espandendosi ancora più ad oriente, in Giappone, attraverso la Corea, ed in occidente, attraverso la cosiddetta Via della Seta: la preziosità del tessuto ricavato era talmente leggiadra che tutte le maggiori case regnanti del tempo volevano esserne rivestite, per il fasto e la grazia regale che solo le vesti di seta potevano dare. In Giappone la seta arrivò dalla Cina agli albori della sua civiltà, portata dalla cultura e civiltà buddista. Enormemente apprezzata dalla Corte Imperiale e dalla classe nobiliare, ben presto la sericoltura si diffuse in tutto il territorio; come sempre è stato per l’ingegnosità del popolo giapponese, i metodi di lavorazione acquisiti vennero migliorati e diversificati, contribuendo a creare un prodotto altamente competitivo e ricercato. Ben presto, nella produzione mondiale della seta, alla Cina si affiancò il Giappone.
In entrambe le tipologie, comunque che si trattasse di vere kozane o loro imitazioni, la laccatura e l’allacciatura con gli odoshi-ge , le fettucce di seta, erano comunemente impiegate. La scelta di usare la seta per gli odoshi-ge fu dettata sostanzialmente dalle sue qualità. La fibra ricavata dal Bombix Mori, il baco da seta del gelso, oppure quella, più preziosa, ricavata dalla specie “Yama Mayu” , il baco da seta della quercia, avevano delle caratteristiche straordinarie di resistenza; ad esempio, il carico di rottura e l’allungamento possibile fino alla rottura, nella seta ricavata dalla specie Bombix Mori sono rispettivamente di 36-45 Kg/mm² e del 20-25%; purtroppo non sappiamo molto della specie “Yama Mayu”, ma la fibra di seta ricavata, più spessa e meno lunga di quella del Bombix Mori, presumibilmente doveva avere delle caratteristiche ancora più marcate di resistenza. La fibra di seta è formata principalmente da due proteine, la fibroina e la sericina, rispettivamente nella percentuale del 72-76% e del 22-23%, e da altre sostanze cerose e minerali (2-3% e 0,3-1,6%). La sericina è quella proteina che ricopre la fibroina, una sorta di protettivo che rende la fibra ruvida, forte e lucente. Mediante il procedimento della “sgommatura”, una vera e propria bollitura in acqua ed altre sostanze, la fibra viene liberata dalla sericina, divenendo morbidissima e molto brillante. Comunemente vengono utilizzati 3 diversi procedimenti di sgommatura, a seconda del tipo di seta che si vuole ricavare (cruda, addolcita, cotta); la temperatura dell’acqua e /o la presenza delle altre sostanze può variare, in base alla sericina che si vuole conservare; vi è anche un altro procedimento, chiamato “caricatura”, in cui la fibra di seta viene caricata di altre sostanze vegetali (tannini) o minerali (fosfati, cloruri o silicati) per poter poi essere tinta più facilmente. Nel caso degli odoshi-ge, durante i Periodi precedenti a quello di Edo (1603-1868), retto dallo Shogunato Tokugawa, Periodi caratterizzati da un’alta frequenza di guerre e lotte (Periodi Kamakura, Muromachi e Azuchi-Momoyama, dal XII fino alla fine del XVI secolo) il tipo di seta usata doveva essere stata sostanzialmente di due tipi, cruda o addolcita, una scelta dettata dalla necessità, per non eliminare del tutto la sericina che dava alla fibra maggiore forza e resistenza. Durante il governo della Famiglia Tokugawa, invece, caratterizzato da una pace duratura e dalla quasi assenza di guerre, l’usanza di far restaurare periodicamente da personale specializzato le importanti armature di famiglia, (ora non più strumento di guerra ma di prestigio e ricchezza) alcune delle quali tramandate di generazione in generazione come veri e propri tesori, comportò l’impiego di una seta quasi del tutto sgommata, diremmo ora cotta, molto più morbida al tatto e assai più brillante. Questo tipo di seta, oltreché essere quella di maggior pregio, rappresentava certamente il materiale allora di più facile reperibilità, una soluzione di restauro manutentivo davvero ottimale dal punto di vista estetico, in linea con i tempi, adatto a sostituire la seta originale molto più ruvida, forte e meno brillante, senza stravolgere l’aspetto primigenio. Pensiamo, comunque, che quali siano stati i tipi di seta usati in base alla presenza o meno di sericina, si sia sempre usato il procedimento della “caricatura” per una migliore resa cromatica delle fibre. Le colorazioni a base di pigmenti naturali avvenivano prima o dopo la tessitura, a seconda della preziosità e cura che si voleva dare al prodotto finito; in genere, comunque veniva fatta sempre sul filato, proprio per ottenere una migliore uniformità della colorazione. La colorazione avveniva sempre a caldo. L’estrazione dei pigmenti dai vegetali avveniva per macerazione o decozione in acqua; le fibre di seta venivano immerse in grandi vasche dentro cui precedentemente era stato versato il pigmento prescelto mescolato ad acqua. I colori maggiormente usati per le fettucce di seta dell’armatura erano i seguenti: il cremisi (murasaki), il bleù molto scuro (kon), il rosso (aka), il rosso indiano (beni), il bianco (shiro), il giallo (ki), il verde (midori), il verde autunnale (moegi), il bleù chiaro (asagi). Tradizionalmente alcuni di questi colori erano associati a famose famiglie guerriere, come ad esempio il rosso agli Hosokawa, il nero ai Date; ma generalmente in Giappone la distinzione nel corredo armato, e quindi della famiglia guerriera d’appartenenza, era il prodotto tra il connubio stilistico dei colori impiegati nelle fettucce di seta e nella cromia della lacca impiegata. Tra tutti, come esempi possiamo citare l’uso della lacca rossa associata alla seta bianca, distinzione di almeno una famiglia Daimyō importante quale gli Ii di Hikone nell’antica provincia di Ōmi (attuale prefettura di Shiga); oppure lacche policromatiche e precise combinazioni tra queste e sete di determinati colori ( porpore, bleù scuro, nero, marrone), codificate dalla Scuola Sansai della già menzionata famiglia Daimyō Hosokawa. La seta impiegata per realizzare gli odoshi-ge era tessuta in modo particolare; sappiamo che fino verso la fine del XVI secolo o le prime decadi del XVII secolo per le fettucce ed i cordoni delle armature le varie operazioni venivano fatte esclusivamente a mano senza l’ausilio di alcun tipo di macchinario, manipolando in rapida successione le fibre di seta con semplici cappi e nodi. Successivamente, dalla prima metà del XVII secolo in poi, si utilizzarono dei telai in legno di varie dimensioni e forme ( takadai, marudai, ayatakedai e ayatakadai). Questi tipi di telai realizzavano fettucce di seta piatte, singole o doppie, ovali, rotonde, trecce cave, cordoni, con colorazioni monocrome o policrome, e decorazioni pressoché infinite. Le fibre di seta colorate venivano riunite ed ordinate in filamenti, con una estremità fissata ad una bobina, chiamata tama, attorno alla quale veniva arrotolata la fibra; in base alla struttura e al tipo di intreccio che si voleva ricavare, potevano esservi diversi gruppi di filamenti, ognuno dei quali avvolti ad una bobina; invece, le altre estremità dei filamenti venivano unite tra loro e legate ad un peso che aveva lo scopo di tenere sempre tesa la fettuccia o la treccia che via via si sviluppava; le bobine venivano srotolate progressivamente, liberando così i gruppi di filamenti per l’intreccio. Le varie tecniche di passaggio, fatte a mano, dei vari filamenti l’uno sull’altro, ad intreccio, semplice o composto, seguivano una procedura prefissata, determinando la consistenza e la decorazione della fettuccia o della treccia che si voleva ricavare. Per le armature la seta era generalmente monocroma e quindi i procedimenti di tessitura erano più semplici. Le tecniche di intreccio erano determinanti per dare ulteriore robustezza alla struttura, già di per se molto forte come abbiamo visto in precedenza; la quantità di seta da impiegare era notevole; si calcola infatti che per un’armatura del tipo Dō-maru erano necessari 250-300 metri di fettuccia di seta. Figura fondamentale nella scelta delle fettucce di seta e nella combinazione di queste con le varie parti in acciaio laccato e le parti “nascoste” dell’armatura costituite dalle fodere in broccato di seta, era il “Saihoshi”, un vero e proprio stilista ante litteram, che della tessitura, in giapponese “shitate”, ne fece un’arte raffinata. Ogni artigiano che aveva lavorato nella realizzazione del corredo armato, fabbro armaiolo, incisore, tessitore, sarto, o conciatore che fosse, a lui e solo a lui doveva presentare il lavoro finito; ed infine, solo lui, il “Saihoshi” doveva sancirne la definitiva qualità. Certo, nell’ammirare le armature giapponesi esposte accanto agli splendori lucenti delle creazioni di Roberto Capucci, è assai difficile immaginare il grande lavoro che ci è voluto nel combinare armonicamente sete, acciai e lacche. L’equilibrio che ne scaturisce ha un gusto del tutto particolare, si direbbe quasi naturale, ed è proprio questo l’obiettivo del creatore: plasmare e abbinare colori, materia, utilità e fascino in un insieme armonioso, in cui nulla disturbi o possa apparire stridente. E’ proprio per questo aspetto che migliore idea non poteva essere concepita: la rappresentazione di meraviglie così diverse ed apparentemente così lontane tra loro nel concetto e nell’immagine, eppure allo stesso tempo così vicine, per l’ingegno con le quali sono state concepite, per il talento, per il gusto dei colori e per quel comun denominatore che lega tali opere tra loro in un vincolo così forte quanto spettacolare: la seta. Argomenti: #cina , #costumi , #cultura , #giappone , #moda , #samurai , #seta , #storia Leggi tutti gli articoli di Francesco Civita (n° articoli 1) |
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