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 Anno V n° 2 FEBBRAIO 2009    -   TERZA PAGINA


Considerazioni su una conferenza
Le origini latine della lingua bergamasca
La prima, risultato di un’esplorazione sui dialetti italiani, che il Comitato di Bergamo della Società Dante Alighieri ha iniziato e che proseguirà nei prossimi mesi
Di Giovanni Gelmini


“Le origini latine della lingua bergamasca”; ecco il titolo di una conferenza che può lasciare molto perplessi gli stessi bergamaschi.
Come, il bergamasco ha origini latine? Ma se sembra ostrogoto!
Infatti se sentiamo parlare in bergamasco, difficilmente comprendiamo quello che si dice e se il bergamasco lo vediamo scritto ci appare proprio qualcosa come il tedesco, pieno di “umlaut” e di vocali accentate: un qualcosa che sembra impedirci la comprensione del testo.Quindi ci appare proprio “ostrogoto”.

In questo numero trovate una favola bergamasca, giusto per verificare quanto prima ho affermato, ma..., malgrado l’ostrogoto, quando ho pubblicato sul blog la prima pagina di quella favola, c’è stata una bloggara che ha tradotto in modo perfetto la favola, pur senza conoscere il bergamasco. Allora forse è vero che anche il bergamasco ha origini latine e comuni a tutti gli altri dialetti, o meglio le lingue preesistenti all’italiano e che poi sono parzialmente state sostitutite nella parlata locale dalla lingua nazionale.
Mi piace ricordare che fino all’avvento della televisione negli anni ‘50, l’italiano era una prerogativa della città, fuori di essa si parlava correntemente solo il dialetto.

Ma vediamo cosa ci dice il Cav. Umberto Zanetti nella sua conferenza lezione “Le origini latine della lingua bergamasca”.

Il primo punto che Zanetti tocca è una dichiarazione di guerra a un’opinione molto diffusa e inconsistente, generata da Ippolito Sola, studioso di linguistica, che “sosteneva- così dice Zanetti - che i dialetti italiani derivassero in linea diretta dalle antiche parlate prelatine, confluite in quel sermo rusticus tanto aborrito dagli autori aulici dell'età augustea.”, anche se Zanetti ammette che questa ipotesi “possiede tuttavia una sia pur piccola parte di verità”

Zanetti ricorda una cosa: la lingua latina parlata lontano da Roma non era il sermo nobilis dei testi classici, ma qualcosa anche di diverso dal sermo familiaris che possiamo intuire leggendo alcune commedie di Plauto e di Terenzio e prosegue: “Leggendo l'introduzione dell'ultimo libro di epigrammi di Marziale ci s'imbatte nella locuzione: robigo dentium municipalium”; quindi che nei municipi il latino è corrotto da pronunzie che lo arrugginiscono storpiandolo. Ma anche il latino che viene “esportato” da Roma non è quello ufficiale, ma quello parlato dagli amministratori imperiali, dai magistrati, dai funzionari e dai burocrati, dai milites, dai liberti, dai mercatores, dai coloni, dagli schiavi, dagli evangelizzatori e ciascuno di loro parla il latino del suo ceto e del suo ambiente. “Nessuno di costoro discorre alla stregua di Virgilio e di Cicerone, che sono proposti come modelli letterari per i rampolli dei patrizi e degli equites, ossia per un ceto dirigente di poche migliaia di cives.”

Dopo le invasioni barbariche, il latino volgare risulta differente da zona a zona a seconda dell'elemento linguistico sul quale si era sovrapposto, si fraziona in mille eloqui locali, consolidati dalla rigida autarchia dell'economia curtense del Medio Evo.

E qui Zanetti sfata un altro mito e dice “È tuttora corrente l'opinione che la genesi dei dialetti italiani sia da porre in relazione con un preteso sopravvento delle parlate barbariche fra il V° e l'VIII° secolo dopo Cristo- più avanti - A parte un limitato contributo lessicale, culminato nell'antroponimia (ossia nell'adozione dei nomi propri di persona), l'influenza degl'idiomi barbarici fu irrisoria sull'evoluzione morfofonetica e sintattica del latino volgare”.

Schürr sostiene la tesi che le vocali turbate, presenti nei dialetti, siano state introdotte dai goti e dai longobardi, ma lo Zanetti argomenta come sia strano e inspiegabile che queste possano essere state introdotte in alcune regioni dell'Italia Settentrionale e non in altre. In realtà la metafonia germanica non avrà che rafforzato l'uso dei suoni vocalici ü e ö, fortemente radicati anche in epoca romana, che quindi proveniva dalle parlate più antiche e ricorda come l'intrinseca debolezza di una cultura arretrata come quella barbarica aveva poche possibilità di modificare quella esistente sul territorio. Nell’analisi etimologica del bergamasco infatti troviamo poche parole di origine longobarda e sono tutte parole che si riferiscono a oggetti umili, di uso comune.

Un’altra considerazione importante che, sempre secondo Zanetti, va a smentire una possibile significativa influenza delle parlate barbariche sull’evoluzione del dialetto bergamasco (N.d.R. ma questo ovviamente è vero per tutti i dialetti dell’alta Italia), è che “la precoce decadenza della parlata longobarda, molto più povera lessicalmente e strutturalmente dei nostri dialetti, doveva già essere in atto quando Rotari pubblicò il suo editto in lingua latina, appena sessantasei anni dopo la calata di Alboino”.

Zanetti prosegue nella sua analisi dell’evoluzione delle lingue parlate nell’Italia all’epoca dell’impero e si concentra su alcuni elementi basilari della presenza del latino sulla terra bergamasca primo tra tutti la toponomastica. Moltissimi sono i comuni che traggono il nome dalle gens latine (n.d r Zanetti cita: Azzano dalla gens Attia, Zanica, berg. Sanga, che è contrazione di Vettianica dalla gens Vettia, Urgnano dalla gens Aurinia, Spirano dalla gens Asperia, poi dopo Cologno ecco Morengo che richiama la e Bariano che potrebbe essere ricondotto ad un gentilizio Barrius, indi dopo Fornovo ecco Mozzanica dalla e Sergnano che rimanda ad un gentilizio Serinnius). o da indicazioni di insefiamenti: così Cologno, Colognola o Fornovo che è la contrazione di Forum Novum); difficilmente questa toponomastica sarebbe arrivata fino a noi se il latino non fosse entrato nella parlata comune.

Importante è il cambiamento nella lingua parlata che Zanetti affronta mostrando come queste modifiche siano comuni a tutte le lingue neolatine e ben documentate. “Quando, al tramonto dell'Impero, le ragioni di differenziazione presero il sopravvento su quelle di unificazione, il latino volgare consolidò le sue varianti locali, che avrebbero poi assunto la fisionomia dei nostri dialetti” e ci fornisce un esempio di tali cambiamenti tratto da un documento del III secolo: l' “Appendice di Probo”, che puntualmente elenca questi cambiamenti avvenuti.

Nello stesso tempo esistono nel bergamasco, come in tutte le parlate dell’aera gallo-celtica, i dialetti lombardi, piemontesi ed emiliani, numerose parole di evidente origine celtica, comuni anche ad altre lingue come le gaeliche (irlandese e scozzese) e le galliche (gli idiomi del Galles e della Bretagna).
Anche in questo caso la toponomastica aiuta a rinvenire lemmi antichissimi, soprattutto se riferiti ai monti e ai corsi d'acqua e così Zanetti propone una serie nutrita di esempi come : 'strapiombo' (Botta, Botto), rav-, 'terreno franoso' (Rova, Rovetta), barga, 'parete di argilla' (Barzizza, Barzesto), bratta, 'sterpame' (Bratto), gava, 'torrente' (Gavarno, Gaverina, Gavazzo).
Conclude questa parte con una considerazione non comune: “Perfino la voce Bergamo ci conduce molto a ritroso nel tempo, essendo inaccettabile e assurda l'ipotesi di far discendere un toponimo prelatino dalle voci di due lingue moderne, l'inglese home, 'casa', e il germanico berg, 'monte'. L'idea di far risalire la forma latina Bergomum ad un mediterraneo Bargamo, 'grande capanna di argilla', potrà lasciarci nel dubbio, ma sarà sempre meno peregrina di quella che viene ancora ripetuta in tutti i testi che illustrano ai turisti la storia della nostra città”.

Interessane è ancora una serie di parole, citate dallo Zanetti, presenti nel bergamasco e non nella lingua italiana, ma la cui derivazione latina è indubbia come: basèl, 'gradino', diminutivo di basis, e poi ai seguenti vocaboli: colóbia, 'brodaglia', da colluvies, crèna, 'fessura', da crenæ, interquerì, 'domandare con insistenza', da interquærere, löcià, 'piangere', da luctare, 'piangere per un lutto'... Si aggiungano i latinissimi semper e contra che risuonano tali e quali in bergamasco ed infine si riconducano ergót e negót a vere gutta quidem e nec gutta quidem.

Un altro passaggio importante della conferenza/lezione è la determinazione di quando si abbandonò il latino per dare vita alla parlata dialettale.

Zanetti affronta con rigore storico questo argomento e conclude: “ A tenere a battesimo i dialetti fu l'Italia delle parrocchie e dei feudi, l'Italia delle ‘curtes’ chiuse in una economia di tipo tenacemente autarchico. Abbandonate e deperite le strade romane, spenti i commerci, illanguidite e immiserite le arti, impoverita e regredita la vita sociale ed economica, pressoché interrotti i rapporti con i territori africani di cultura romana, invasi prima dai Vandali e poi dagli Arabi, l'Italia dei secoli bui si risollevò lentamente dalle sue immani rovine parlando un volgare fortemente differenziato da regione a regione, da valle a valle, da città a città,

E più avanti: “ Nessuno aveva più ragione di parlare in latino dopo la caduta di Roma: il modello linguistico diffuso dai coloni, dai mercanti, dai legionari, dai funzionari imperiali non aveva più senso essendo venuta meno la potenza politica, economica e militare di Roma. Le declinazioni non furono più tentate, le coniugazioni furono semplificate con la perdita delle forme passive e deponenti, la fonetica latina si alterò adattandosi a quella dei vari sostrati. Quando il concilio di Tours, nell'813, prescrisse che la fede cristiana fosse predicata in volgare, i dialetti erano già da tempo una realtà compiuta. Da San Gerolamo apprendiamo che addirittura nel IV secolo Fortunaziano, vescovo di Aquileia, fu costretto a ricorrere a un commento dei Vangeli in "linqua rustica" perché i fedeli del suo patriarcato comprendevano con difficoltà il latino corrente.

Secondo Zanetti è Dante che, alla ricerca di un volgare illustre che potesse sostituire degnamente il latino, segnala nel "De vulgari eloquentia" l’esitenza cosolidata dei dialetti, anche se li denigra.
A tal riguardo dice Zanetti: “Definì il pugliese 'sconciamente barbaro', il toscano 'turpe', il romagnolo 'molle e femmineo', l'emiliano 'gutturale', il torinese 'orrendo', del bresciano e del veronese disse che erano linguaggi tanto 'ispidi e irsuti' che, udendoli dalle labbra di una donna, costringevano a 'dubitare che fosse un uomo'. Trattò il romanesco, che la televisione ci infligge mane e sera, purtroppo con pronunzie burine e borgatare, come 'il più lurido di tutti i volgari italici', 'fetido e sconcio come la gente che lo parla'. E liquidò il milanese e il bergamasco schernendoli....” È quindi evidente che i dialetti sono antecedenti all’italiano e non sono certo da disprezzare come forme di espressione incolta, quando invece rappresentano una forma culturale somma di millenni di vita.


Tratto da Le origini latine della lingua bergamasca Conversazione del Cav. Umberto Zanetti Tenuta nell’ambito del progetto “Culture d’Italia : le lingue locali” del Comitato di Bergamo della Società Dante Alighieri leggi il testo integrale della conferenza.

Il progetto proseguirà con : “La Lingua Sarda”, Venerdì 13 Marzo 2009 e “La lingua Friulana” Venerdì 03 Aprile 2009; per ulteriori informazioni vedi:
http://www.ladantebg.org/iniziative.asp



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