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 Anno V n° 8 AGOSTO 2009    -   PRIMA PAGINA



Afganistan oggi
La recrudescenza del conflitto, mai finito, è legata alle prossime elezioni. Usa e Onu si muovono per fronteggiare la situazione. Qual’è l’opinione degli italiani su questa guerra?
Di Giacomo Nigro



Mancano circa due settimane alle elezioni presidenziali in Afghanistan, che si terranno il 20 agosto. I Talebani si danno da fare per sfidare con costanza Hamid Karzai, Barack Obama e la Nato. Vengono colpiti obiettivi strategici e simbolici, come di recente è accaduto all'aeroporto della capitale afgana, alcuni edifici governativi, tra cui il quartier generale delle forze armate, sfiorando il palazzo che ospita l'ambasciata degli Stati Uniti.

Lo scopo è chiaro: i talebani vogliono dimostrare che l'attuale governo non è in grado di controllare il territorio. Infatti i razzi sono stati sparati da una quindicina di chilometri di distanza dalla capitale, da una zona che non si trova sotto il controllo dei Talebani. Ciò vuol dire che i guerriglieri islamici possono adottare a loro piacimento la tattica del “mordi e fuggi”: hanno sistemato le loro batterie, sparato i razzi e quindi sono spariti nel nulla.

Non è la prima volta che i Talebani colpiscono il cuore di Kabul, eppure sembrava che da mesi la situazione nella capitale afgana si fosse stabilizzata. Essi hanno ora il chiaro obiettivo di far fallire le elezioni. Non possono impedire che si tengano, ma possono sabotarle pesantemente, alimentando la paura, dimostrando che, nessuno, può fermarli, sconfiggerli, che non possono essere “cacciati” dall'Afghanistan. Chiunque, governi, dovrà fare i conti con loro.

L'azione dei guerriglieri, in passato concentrata nel sud del paese, roccaforte dei talebani, da tempo si è spostata anche in altre province. A farne le spese anche le truppe, come quelle italiane, che, mandate in zone relativamente sicure, ora si trovano di fatto in prima linea. I continui attacchi in quest’area nell'ovest dell'Afghanistan dimostrano che la pressione dei talebani è destinata ad aumentare, anche allo scopo di far diminuire la pressione cui, a loro volta, sono sottoposti da quando è iniziata l'offensiva americana nella Valle di Helmand.

Il comando statunitense e quello dell'Alleanza Atlantica sono consci della delicatezza della situazione e hanno deciso di correre ai ripari. Il segretario alla difesa statunitense Robert M. Gates è, recentemente, volato a Bruxelles per un meeting segreto, ad altissimo livello, con i generali degli eserciti impegnati nella guerra di Kabul.

Da parte loro, con un comunicato diffuso su Internet, i ribelli islamici affermano che "per ottenere una vera indipendenza, invece di recarsi a centri elettorali fasulli, (gli afgani) devono andare nella trincea della jihad, e, attraverso la resistenza e la jihad, devono liberare il Paese occupato dagli invasori".

Anche Anners Fo Rasmussen, in veste di nuovo segretario generale della Nato, si è mosso: il suo primo viaggio è per Kabul; l'ex premier danese ha in agenda diversi incontri politici, fra gli altri incontrerà alcuni dei principali candidati alle elezioni presidenziali del prossimo 20 agosto. Egli incontrerà naturalmente il presidente uscente Hamid Karzai, in lizza per un nuovo mandato e indicato come favorito. Rasmussen ha ribadito che la Nato continuerà a sostenere gli afghani, incoraggiandoli a farsi carico del mantenimento della sicurezza. In effetti, l'attuale presenza dei militari internazionali nel paese non cessa di causare contrasti con la popolazione locale. Specie nel sud del paese.

Intanto a Washington il rapporto del generale Stanley McChrystal, comandante delle truppe americane in Afghanistan, sara' pronto alla fine di agosto o ai primi di settembre. Il rapporto non conterrà una specifica richiesta di nuove truppe, il cui numero sarà comunque incrementato sulla base di richieste trasmesse separatamente e attraverso la “catena di comando”. Il rapporto, ha riferito l'ufficio stampa del Pentagono, farà il punto unicamente sulla situazione sul terreno e sull'efficacia delle strategie adottate nel conflitto.

Nel frattempo, nonostante le schermaglie della politica, l'opinione degli italiani sull'impegno militare in Afghanistan è stabile: essa manifesta un'adesione piuttosto tiepida alle scelte assunte in sede istituzionale.

Nel febbraio 2007 (in pieno governo Prodi) il 54% del campione si dichiarava favorevole al ritiro delle truppe dal fronte, due anni dopo l'indagine fotografa una realtà pressoché identica, con i favorevoli attestati al 56%, una percentuale, dunque, simile a quella già registrata due anni addietro, nonostante il dibattito politico che si è sviluppato negli ultimi giorni dopo l'uccisione di un soldato italiano.

La maggioranza dei sostenitori del ritiro, prescindendo dallo schieramento politico di appartenenza, conviene sulle modalità in cui esso dovrebbe avvenire: secondo il 34% l'abbandono dello scenario di guerra, in questa fase, imporrebbe una condotta responsabile e un approccio ponderato, con un disimpegno graduale e gestito concordemente con le esigenze degli alleati mentre il 22% ritiene al contrario, che il ritiro debba essere repentino, senza strategie precise o accordi internazionali. Insomma un'azione unilaterale dell'Italia.

Quale che sia la maggioranza al governo, il suo grado di coesione interna e l'intensità della condivisione degli indirizzi di politica estera, l'opinione dei cittadini sull'opportunità del coinvolgimento nello scenario afgano conserva una forte propensione al disimpegno. La scelta pare sganciarsi dal clima del momento o dal grado di percezione del pericolo: gli italiani che temono un attacco terroristico nel nostro Paese sono scesi in due anni dal 63 al 54%, mentre il 25% pensa che Osama Bin Laden sia morto.

Le forti perplessità verso la missione si trasformano in un più netto rifiuto, se si passa all'analisi di uno scenario in cui l'Italia figuri maggiormente impegnata nel conflitto. In questo caso il fronte dei contrari al potenziamento delle forze in campo con più uomini e più mezzi sale al 69% e divide esattamente a metà lo schieramento degli elettori del centrodestra.

In presenza di dati così stabili, anche il contraccolpo emotivo, generato dall'irrompere di episodi tragici, come l'uccisione di un connazionale nello scenario del conflitto, non paiono determinanti. Lo scetticismo verso la missione risulta essere, piuttosto, l'effetto di un basso livello di aspettativa circa il successo dell'operazione e di scarso riscontro sul piano dei risultati: il 56% del campione ritiene infatti che la missione si sia rivelata costosa e abbia sostanzialmente fallito nei suoi scopi principali.
Il giudizio presenta contorni più marcati nell'area di opinione di centrosinistra e di quella sinistra priva di rappresentanza parlamentare. E tuttavia non pare di poco conto l'identico pronunciamento del 37% degli elettori di centrodestra.



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