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 Anno V n° 10 OTTOBRE 2009    -   TERZA PAGINA


L’ autore per ragazzi ci guida tra le fiabe e la storia dell’oceania
Echi di mari lontani: le fiabe dell’Oceania
Scritto per: 27° Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia. Echi di mari lontani, fiabe dall’Oceania
Di Luigi Dal Cin



 

Sarolta Szulyovsky: L’Universo conchiglia (Isole della Società)

I popoli delle isole raccontano che Tangaroa ,dal volto tatuato, fu il primo di tutti gli antenati. Per molto tempo Tangaroa visse dentro la sua conchiglia, che girava da sola nel buio dello spazio infinito. Allora infatti non c’era il sole, non c’era la luna, e non c’erano né la terra né le montagne. Non esisteva ancora l’uomo, né gli uccelli, né i pesci, né i cani, e nessun altro essere vivente. E non c’era ancora l’acqua, né salata né dolce.

Alla fine di un lungo tempo Tangaroa diede un colpo lieve alla sua conchiglia, che si aprì. Tangaroa allora si alzò in piedi sulla conchiglia e cominciò a gridare nello spazio infinito: “Chi c’è sopra? Chi c’è sotto?” ma non ebbe alcuna risposta. Si sentiva solo la sua voce, perché non ce n’era nessun’altra. “Sabbia, vieni da me!” comandò. Ma la sabbia non c’era ancora.
“Nessuno mi obbedisce? – disse Tangaroa – Allora farò io!”. Così Tangaroa sollevò in alto la cupola della sua conchiglia fino a formare la volta del cielo. E poiché all’interno della sua conchiglia aveva molte altre conchiglie, ne prese una seconda, la sgretolò in minuscoli pezzettini, e creò la sabbia. Tangaroa cominciò in questo modo a creare ogni cosa che esiste. E poiché Tangaroa aveva conchiglie, ecco che ogni cosa creata ha una sua conchiglia. Il cielo è una conchiglia per il sole, la terra e le stelle, poiché li contiene. La terra è una conchiglia per le pietre e l’acqua, e per le piante che vi crescono. La conchiglia di un uomo è una donna, perché è da lei che nasce.
È così che, nell’universo, ogni cosa che esiste ha una sua conchiglia.

Proveniamo tutti dalle conchiglie, racconta questo mito della creazione narrato a Tahiti.
Ovvero: proveniamo tutti dall’Oceano, di cui possiamo ancora ascoltare echi lontani impressi, da tempi ancestrali, come impronte nelle nostre anime.

L’Oceano Pacifico è il più grande mare del nostro pianeta. Dalle sue acque emergono qua e là più di diecimila isole, grandi e piccole, che collegano come un ponte Asia, Indonesia e Australia all’America. Da sempre il Pacifico ha esercitato un influsso misterioso e carico di immaginario sull’uomo occidentale. Navigatori, esploratori, missionari; ma anche scrittori, come Melville e Stevenson, pittori, come Gauguin, hanno affrontato il grande viaggio alla ricerca di un altrove, e ci hanno riportato gli echi di quell’immenso Oceano.

 
 

Urberuaga Emilio: La rete delle fate (Nuova Zelanda)

Sono proprio il viaggio e l’altrove originario a costituire le dimensioni più profonde che accomunano tutte le culture dei popoli dell’Oceania: sia quella del piccolo gruppo degli Aborigeni che abitano l’immensa Australia, sia quella delle numerose genti che abitano piccole porzioni di terra emersa nel Pacifico, a volte addirittura difficili da trovare sulle mappe. Non è però dalle carte geografiche che si conosce la realtà dei giorni e della vita, e il loro vero valore. L’occhio mediatico globalizzato non riesce a scorgere ciò che è più piccolo. E la cultura espressa da un popolo, la vivacità, l’arte, le sue fiabe non dipendono da grandezze geografico–quantitativo–mercificabili, ma da sintonie secolari con la natura, da relazioni di condivisione comunitaria, da profondità di rapporti spirituali con l’altrove da cui tutti proveniamo e verso il quale stiamo tutti navigando.

Ed è proprio nelle narrazioni delle fiabe che i popoli dell’Oceania vivono ancora oggi la loro forte relazione con un altrove originario e con il viaggio. E proprio nelle fiabe – preziosi reperti antropologici – si possono trovare le risposte sulle loro origini.

Gli antenati dei popoli delle Isole dell’Oceania provenivano dal continente asiatico.
I primi viaggi di queste popolazioni verso il Pacifico si fanno risalire a circa 4.000 anni fa, e furono possibili grazie ad abili conoscenze delle tecniche di navigazione. La ragione per cui gli antenati si lanciarono in lunghi viaggi colonizzatori a bordo delle loro canoe oceaniche, i waca, resta un mistero. Si sa però che le loro imbarcazioni potevano trasportare fino a 250 persone, oltre alle piante e agli animali necessari per iniziare una nuova vita. Samoa e Tonga furono i primi gruppi di isole ad essere occupate: queste regioni possono essere considerate come la patria della cultura polinesiana, che qui sviluppò i suoi caratteri peculiari.

Da questa zona l’esplorazione continuò verso le Isole Marchesi e della Società; alcune tribù proseguirono poi verso sud–est fino a raggiungere Rapa Nui (l’Isola di Pasqua), verso nord fino alle Isole Hawaii, verso sud–ovest fino ad Ao–tea–roa, la terra della grande nuvola bianca, ovvero la Nuova Zelanda. Nel 1300 d.C. il periodo di espansione era completato, e per i popoli delle Isole iniziò un tempo di stabilità e di equilibrio (che durò fino all’arrivo dei primi uomini bianchi).
 
 

Monaco Octavia: La rete delle fate (Nuova Zelanda)

Li accomunava il fatto di considerarsi tutti provenienti da un’unica madrepatria mitica chiamata Hawaiki, simbolo di un’origine lontana, dell’altrove leggendario degli antenati, da cui era partita la Grande Emigrazione narrata poi di padre in figlio.

La storia moderna dei Maori della Nuova Zelanda, ad esempio, prende il via dalle sette gloriose canoe.
I viaggi relativi a ciascuna canoa hanno segnato scie leggendarie e lasciato qua e là indizi misteriosi.

I loro racconti, tramandati oralmente, hanno sempre costituito presso i Maori motivo oltre che di orgoglio anche di diritto: derivano infatti dalla discendenza dagli antenati della propria canoa sia la fondazione del proprio gruppo tribale sia il proprio diritto territoriale.
 

Valentinis Pia: Manui e la corsa del sole (Isole Cook)

Ma la definizione delle culture originarie delle terre d’Oceania – dove la fioritura dei racconti dei primordi appare non a caso più copiosa che in ogni altra parte del mondo – non è sempre univoca, anzi: lascia invece spazio a influenze e connessioni legate alla complessità degli eventi migratori solo in parte ricostruiti dagli studiosi, dove cosmogonia e antropogenesi si intrecciano in una successione evolutiva che abbraccia i fenomeni naturali, gli uomini e le divinità.

Il poema sacro che, ad esempio, gli indigeni cantarono al capitano Cook al suo arrivo connetteva la famiglia reale con le generazioni divine, le stelle, le piante e gli animali. Correva l’anno 1769, ed erano passati quasi due secoli dal primo contatto che i popoli delle Isole avevano avuto con i papalagi ‘venuti dal cielo’ (così gli abitanti di Samoa e di Tonga chiamavano gli stranieri: dato che il loro mondo non andava oltre le loro isole, chiunque non vi appartenesse non poteva che provenire da altri mondi). Fu infatti nell’anno 1595 che Mendaña scoprì le Isole Marchesi e sbarcò a Tohu Ata.
Quando ne ripartì, poco dopo, i suoi archibugieri avevano già ucciso duecento isolani senza un vero motivo.

Eppure, nonostante l’arrivo devastante dei papalagi e secoli di colonialismo europeo che modificò le strutture sociali originarie e che diffuse epidemie decimando le popolazioni, l’atteggiamento di accoglienza del viaggiatore è un valore profondo e naturale per questi popoli che non hanno mai dimenticato che i loro padri sono stati essi stessi viaggiatori: uomini ‘altri’ in terre altrui.

Ancora oggi, quando si arriva in barca presso qualsiasi piccola isola dell’Oceania, non si pensi di gettare l’ancora nella baia e di fare subito il bagno.
La prima cosa da fare è la visita al capo.
E non si tratta affatto di una pratica doganale, al contrario: è un’usanza piacevole. Ci si accorda per un appuntamento al quale andare con un dono simbolico: un pezzo di stoffa, una bevanda, del cibo, una propria moneta. Si verrà accolti dal capo dell’isola che domanderà da dove si viene e come si vive laggiù. Si tratta di accoglienza, di autentico desiderio di conoscere l’altro e il suo altrove, perché nella sua pellegrina condizione si riconosce la propria antica storia di viaggiatori.



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