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Sherlock Holmes di Guy Ritchie

Nessun personaggio è mai stato così radicalmente stravolto riuscendo a rimanere così tanto fedele a sé stesso

Di Concetta Bonini


Avete presente quel raffinato englishman, impeccabile con i suoi baffetti e il suo berretto da caccia ai cervi, pipa e lente d’ingrandimento alla mano? Se finora avete creduto che Sherlock Holmes fosse quello: dimenticatelo!

Nessun personaggio è mai stato così radicalmente stravolto riuscendo a rimanere così tanto fedele a sé stesso, a quel sé che non era mai uscito dalle sfumature nascoste tra le righe delle mitiche pagine di Arthur Conan Doyle. Non a caso allo “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie non servono didascalie, né alcuna di quelle “estensioni” del titolo che appartengono alla storia del cinema e, più precisamente, alla saga di Basil Rathbone.

Quello di Ritchie è semplicemente lui: Holmes. Fotografato nell’anima, in quell’essenza finora invisibile e, proprio in quanto tale, essenziale.

Gli sceneggiatori Micael Robert Johnson, Antony Peckham e Simon Kinberg, hanno sicuramente fatto un lavoro egregio, reintrecciando in un’intensissima trama i fili del titanico scontro di Holmes contro Blackwood – il topos del Bene contro il Male - senza rifarsi a nessuno dei quattro romanzi e dei cinquantasei racconti di Conan Doyle. Ma qui, davvero, questa trama non conta. Quel che rende “Sherlock Holmes” un’esperienza cinematografica stupefacente è proprio la reinvenzione dei personaggi, tanto che qualcuno lo ha giustamente definito non un remake, ma un vero e proprio reboot del mito senza tempo di questo indimenticabile “supereroe” ante litteram.

Affinchè il “rilancio” fosse energico, il regista ha puntato tutta la posta su due cavalli di razza e, alla vigilia dell’uscita del film nelle sale, c’è da fare la stessa scommessa: la spontanea complicità che Robert Downey Jr e Jude Law hanno saputo instaurare, è efficace, completa in sé, condita in salsa ironica, piccante ed eccitante. Downey Jr non tradisce nulla del suo sangue americano, è un Holmes perfettamente a suo agio nel contesto di una London vittoriana, sfrondata da ogni orpello estetizzante; è affascinante e un po’ disordinato, un genio eccentrico e quasi bohemien, non di rado buffo e addirittura goffo, ma puro e brillante, viscerale; Law è per lui un alter ego, magnificamente complementare, sempre pulito e impeccabile, finalmente svestito dai panni striminziti della spalla e riabilitato alla forza dell’intelligenza, esplorato nella sua complessa personalità, indispensabile grazie alla sua ragionevolezza, alla sua sagacia e soprattutto alla sua inossidabile lealtà. .

Il regista ha voluto, dal canto suo, puntare altrettanto sul suo film come su film d’azione, convinto di poter usare la tecnologia per restituire alla storia anche la dimensione piena di questo aspetto: gli inseguimenti mozzafiato, i combattimenti e la fisicità violenta non erano mai appartenuti al linguaggio cinematografico di Holmes, mentre appartenevano pienamente alle pagine di Conan Doyle. Ma non avrà torto chi troverà su questo versante rocambolesco un punto debole: un malcelato avvicinamento di Holmes a Bond, evidentemente del tutto inopportuno.

La carica irresistibile di questo film, così originale e ben ritmato, sta invece tutta nel gioco intellettuale della coppia protagonista che è riuscita a entrare in un’icona, a scardinarla e a reinventarla, con sfrontato e irriverente coraggio, come se fosse inedita.



Argomenti:   #cinema ,        #film ,        #recensione



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