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 Anno VI n° 1 GENNAIO 2010    -   TERZA PAGINA



Memorie di una maestra precaria
Credevo che fosse un lavoro e invece non era neanche un calesse, al massimo un monopattino arrugginito
Di Silvia Sanna



Credevo che fosse un lavoro e invece non era neanche un calesse, al massimo un monopattino arrugginito.

Prima esperienza di lavoro serio dopo volantini di case in affitto, troppo care per essere prese in affitto, parrucchieri alla moda, grandi magazzini, che fanno talmente tanti sconti che poi non gli rimangono loro i soldi per pagare te, che ti fai il culo portone per portone sotto il sole e la pioggia e ti prendi gli insulti dei condomini che non vogliono immondizia nella cassetta delle lettere. Oppure contare i cavalli: sì, conta i cavalli alla Cavalcata Sarda e se li conti bene ti diamo cinquantamila lire. E va bene contare cavallo per cavallo cercando di schivare le cacche, ma quando passano a branchi, anche se quello è un termine da pesce o da elefante, beh, come cacchio si fa a contare i cavalli uno ad uno, ditemelo voi.

Poi il lavoro serio, quello che tutti aspettavano ché tanto sei brava e ti piacciono i bambini e i bambini ti adorano e alle feste si picchiano per sedersi a tavola vicino a te, che non te li fili neanche, perché tanto sono loro che ti guardano e si avvicinano e vogliono sedersi in braccio a te che non li caghi neanche, ma forse ti vedono piccola e pensano, “ma sì, questa ad occhio e croce ha la mia età”. E l'hai detto fin da piccola, che il tuo sogno era quello di insegnare. Di insegnare sì, ma avevo sempre specificato che ero un po' snob nei miei desideri e non avevo mai parlato di bambini piccoli, così piccoli che se non stai attenta ti si spezzano in mano. Io volevo fare la professoressa e non per una questione di titolo, che di superiore tra i maestri e i professori, c'è solo lo stipendio, forse. Volevo fare l'insegnante.

E lì sono caduta.

Perché se fai l'insegnante, insegni e basta: non ti deve importare se chi ti trovi davanti alla cattedra ha sei o sedici anni. E tu che sei dietro la cattedra, di anni ne hai ventisette, dieci o venti in più di loro e non ti senti pronta, perché ti senti ancora una di loro. Dove la senti mai una maestra che dice “A noi la maestra ci faceva cantare bella ciao”, no che non lo senti e non perché non ci siano maestre comuniste oltre la tua, ma perché poche maestre, oggi, ragionano con la testa di un bambino e ricordano di esser state bambine. Bene: lo so che non c'è di che vantarsene, di ragionare con la testa di un bambino, soprattutto a ventisette anni, però io nei panni dei miei bambini mi ci voglio mettere eccome, tanto ci entro giusta giusta.

Io, la maestra, comunque, non pensavo di farla così in fretta. Cioè: avevo bisogno di un po' di tempo, di altri lavoretti stupidi e mal pagati e poco seri, prima di trovare un lavoro così importante, mal pagato e troppo serio. Io la maestra l'avrei voluta fare tra un paio di anni, con una laurea intera in tasca e un po' di tempo per studiare preventivamente tutte le materie dall'inizio: dalla prima elementare in poi.

E a questi bambini, magari, non resterà che una fotografia, con la loro maestra che tanto amano, oggi. Ma a questa maestra basta vederli felici, basta fare un'ora di lezione con Tristizia abbracciata a lei, che quando torna a casa probabilmente trova solo polvere bianca e miseria. E le basta il sorriso di PiccolaSquaw che chiusa nel suo autismo, si alza solo per andare ad abbracciarla. E non sarà certo la loro maestra a metterli al riparo dal dolore, perché vedete, bambini, lei soffre più di voi, questo sì, perché soffre per lei, per gli altri e per voi, che ancora siete piccoli e, per fortuna, soffrite in maniera proporzionale alla vostra concezione del dolore.

Io la maestra non la volevo fare subito, ma è successo. Accadono cose nella vita, che sono come domande, passano giorni oppure anni e poi la vita ti risponde. Lo diceva Baricco, non lo dico io, ma è bello lo stesso, modestamente, anche se Baricco a voi che mi leggete non piace. Accade anche che arrivi un figlio e uno dice “e ma no, cacchio, non eravamo preparati ad una cosa così, e poi come facciamo a trovare il tempo”. E vabbè, ci sono le baby sitter. Che le baby sitter, si sa, spesso lasciano dei traumi indelebili ai bambini: che alla mia amica Riccio, la baby sitter la stava quasi per uccidere con il coltello. Le baby sitter che conosco io no, loro uccidono con i cartoni animati, con quel tizio di Raiuno che apre i pacchi, con la bevanda nera con le bollicine frizzanti che vanno su su per il naso e con il fritto che ti fa vomitare l'anima.

Capita anche che non si è pronti per fare la maestra. Ecco: io non lo ero, è stata dura, stancante, ma è stato bellissimo e amo quei bambini come se fossero me stessa da piccola, li amo come avrei amato me stessa a sei anni e sicuramente li amo anche di più di quanto mi sarei amata io.

Tanti bambini, tanti casi umani, famiglie disperate, distrutte, violente, povere. Raccolgo sangue e capelli strappati, mi sento abbandonata, mi sento esiliata e quasi colpevolizzata per il solo fatto di voler dare a questi bambini la possibilità di fare delle esperienze nuove, formative, emozionanti. Mi sento quella che ha i mulini a vento contro cui combattere, sono in realtà delle centrali eoliche che ti vomitano indietro aria malata. Mi sento quella che vorrebbe mettere in pratica gli insegnamenti del libro Cuore, ma in versione pulp, molto pulp, pure troppo. Da alunna piangevo l’ultimo giorno di scuola, temevo il distacco dalle compagne e dagli insegnanti, ora voglio che la scuola finisca. In estate i miei bambini giocano e si abbronzano e crescono e ridono e tutto succede lontano dalla maestra, che in estate, almeno in estate, non vuole sentire le urla dei bambini e se può evita di andare al mare nelle spiagge affollate di mamme che urlano e leggono Grand Hotel, sedute sulla spiaggia e guardano i figli correre sulla battigia e buttare la sabbia sugli asciugamani dei vicini e riempirsi i capelli di sabbia.

Io la maestra non la volevo fare, perché io un po' mi conosco e so che mi innamoro follemente delle persone e poi quando le perdo, per un motivo o per l'altro, ci soffro terribilmente, ma non una sofferenza normale, no, una sofferenza devastante che mi lascia un graffio che non riesce a rimarginarsi e ogni tanto, lento lento, viscido e insinuante, torna a galla. Perché io le pietre sopra non riesco mai a metterle. A parte quella sulla Cinquecento della segretaria, che quella l’avrei voluta mettere sul serio.

E come faccio a dimenticarmi quelle faccine e a sostituirle con altre faccine e a cercare di dimenticare i loro nomi, se no faccio troppo casino con quelli nuovi, e finisce che mi ripetono sempre “maestra, ma perché ci chiami con i nomi dei bambini di terza, se noi siamo in seconda?“ Io la maestra non la volevo fare e mi stanca farlo, a volte non ho voglia di andare a scuola proprio come quando ero alunna e spero che nevichi, che cada un meteorite sull'autostrada o il consiglio comunale si sciolga ogni settimana e ci siano sempre le elezioni.

Perché il lavoro della maestra, anche se è una supplente precaria come me, che sta poche ore in classe, non finisce la mattina. No, la maestra, se vuole guadagnarsi il suo misero stipendio e se ha una morale e se non vuole sentirsi una merda, è maestra sempre e non ci sono giorni liberi che tengano, né tre mesi di vacanza, che se poi conti che la maestra va a scuola fino al 30 giugno e rientra in classe il primo settembre e nel frattempo va sì al mare, ma studia ancora, si aggiorna e prepara i programmi e le lezioni e i progetti per il nuovo anno, beh, la maestra non si riposa quanto pensate voi.

È stancante, fare la maestra, e qualche volta preferirei concentrarmi solo sullo studio e finire una buona volta l'università, per cancellare quella sensazione perenne di fare sempre le cose a metà. É stancante studiare per lo studio e studiare per il lavoro e non me ne vogliano quelli che lavorano in fabbrica, perché ognuno si stanca a modo suo e scusate se il concetto può essere offensivo, ma anche il lavoro intellettuale è stancante. Studio da ventuno anni, sì ventuno, dall'alfabeto in poi e in ventuno anni di studio ho imparato e disimparato e imparato di nuovo e mi trovo in mano con un pugno di moscerini e una medaglia arrugginita che mi hanno dato per la mia mezza laurea. Il lavoro sicuro arriverà chissà quando, ora no, non si trova e non si può trovare, non senza la laurea e le specializzazioni varie e bla bla bla, qualunque cosa atta a fotterti altre tasse.

Una vita da maestra non basta per rifarmi di tutti gli anni e i soldi spesi per diventarlo. E poi la maestra, vuoi mettere, se non ci fosse una maestra nella vita di ognuno di noi? Non parlo di maestra di scuola, che quella può essere anche stronza e dirti che sei una bambina stupida, perché non ascolti la lezione e te ne stai lì a fantasticare chissà che cosa, che la fantasia è una perdita di tempo e te ne accorgerai, bambina, di cosa è la vita là fuori, che ti spaventa ancora prima che tu possa capire cosa è la vita in generale, non solo la vita là fuori.

Parlo di maestri di vita, di cui io sono sempre stata alla continua ricerca e, per questo, posso dire di essere sempre stata fortunata, perché ne ho sempre avuto uno e più di uno: un punto di riferimento su cui contare, un punto di riferimento che non può essere un amore che finisce o un'amicizia che finisce per un amore.

Non so se sarò mai una maestra di vita per qualcuno, ma per il momento mi basta essere una brava maestra.
Non so se lo sono, ma gli abbracci dei miei bambini vanno al di là di ogni gratificazione burocratica.

 



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