I bambini di Haiti non hanno un nome, ma il loro è un viso da prima pagina. Sanguinanti, terrorizzati, increduli: per questi angeli neri non c'è privacy che tenga e il tabù del buon senso crolla davanti all'obiettivo di un fotografo famelico.
Mi chiedo se chi sta a guardare -noi- abbia bisogno di vedere le immagini di un piccolo viso disperato e rosso di sangue, per constatare l'entità della tragedia e prendere parte al dolore. Un dolore universale che non aumenta né diminuisce a seconda della distanza fisica o del colore.
I bambini di Haiti sono i bambini de L'Aquila, sono i bambini della scuola di S.Giuliano di Puglia, sono la piccola Anna trascinata da un'onda a Capoterra, sono i bambini che oggi, sotto casa mia, si rincorrono sotto la pioggia.
I particolari dei ritrovamenti, di vivi e morti, sono sempre agghiaccianti e non aggiungono niente, se non orrore, alla notizia.
Il vescovo cattolico di Haiti, dilaniato dalle macerie che gli sono piovute addosso, è stato ritrovato seduto sul suo scranno, come se un frammento di tempo si fosse congelato nel passaggio tra la vita e la morte.
Mi torna alla mente il giornalista che, intervistando un carabiniere a Villa Sant'Angelo (L'Aquila), a pochi passi dalle squadre che ancora scavavano a mani nude per cercare la vita, gli chiedeva come mai avesse delle macchie di sangue sulla giacca.
La notizia che mi riconcilia con il difficile mestiere dell'informazione a tutti i costi è quella della troupe australiana che, sentendo le grida di aiuto di una bambina, ha posato le telecamere e ha iniziato a scavare sotto le macerie. La piccola Winnie, diciotto mesi, ha rivisto la luce del sole e spento quelle della diretta.
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