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 Anno VI n° 12 DICEMBRE 2010    -   IL MONDO - cronaca dei nostri tempi


44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010
I punti che bloccano l'economia
Nell'analisi del Censis: la situazione del lavoro tra flessibilità e la disoccupazione giovanile, la despecializzazione imprenditoriale, il credito al consumo, le voci obbligate nel bilancio delle famiglie
Di G.G.


Tutti sono interessati a capire come si può uscire dalla crisi; lo studio del Censis ci può dare una mano a capire cosa funziona e cosa non funziona nella nostra società, di cui evidentemente l'economia n'è un aspetto non trascurabile, ma strettamente legato alla struttura sociale.

Vediamo i punti negativi.

Uno dei punti di difficoltà per ritornare ad una situazione di tranquillità è certamente la situazione del Lavoro.

Il Censis rileva una stranezza, che deve far riflettere: “Mentre in tutto il mondo la ricetta per uscire dalla crisi prevede l’attivazione di tutte le energie professionali con l’auto-imprenditorialità, l’Italia - patria del lavoro autonomo e imprenditoriale - vede ridursi in questi anni proprio la componente del lavoro non dipendente: 437.000 imprenditori e lavoratori in proprio (artigiani e commercianti) in meno dal 2004 al 2009 (-7,6%).

Uno dei vanti del governo Berlusconi 2001-2006 è stata l'introduzione dei contratti “atipici” per dare “flessibilità al lavoro”, cosa richiesta a gran voce dagli imprenditori, ma il Censis rileva che ancora oggi l’Italia è anche il Paese europeo con il più basso ricorso a orari flessibili nell’ambito dell’organizzazione produttiva: solo l’11% delle aziende con più di 10 addetti utilizza turni di notte, solo il 14% fa ricorso al lavoro di domenica e il 38% al lavoro di sabato, il che vuol dire che l'utilizzo degli impianti e delle risorse fisse è inferiore alla capacità. Inoltre l'Italia è il Paese dove è più bassa la percentuale di imprese che adottano modelli di partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda (lo fa solo il 3% contro una media europea del 14%), un fatto che tiene lontani i lavoratori dalla responsabilità dell'utile d'azienda e li demotiva, ma che permette agli imprenditori di non rendere conto alla componente “lavoratori” delle operazioni connesse al bilancio.

Preoccupante è la situazione lavorativa dei giovani.

Nel 2009- leggiamo nel rapporto - tra gli occupati di 15-34 anni si sono persi circa 485.000 posti di lavoro (-6,8%) e nei primi due trimestri del 2010 se ne sono bruciati quasi altri 400.000 (-5,9%). Di contro, se si esclude la fascia immediatamente successiva, dei 35-44enni, dove pure si è registrato un decremento del livello di occupazione (-1,1% tra il 2008 e il 2009 e -0,7% nel 2010), in tutti gli altri segmenti generazionali, non solo l’occupazione ha tenuto, ma è risultata addirittura in crescita: è aumentata . I primi segnali relativi al 2010 (+2,4% per i primi, +3,6% per i secondi) sembrano andare nella stessa direzione.

La cosa più grave però è la sfiducia che pervade i giovani, che non credono nella possibilità di trovare un’occupazione e sono poco disponibili a trovarne una a qualsiasi condizione. Il Censis segnala che sono 2.242.000 le persone tra 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, né cercano un impiego. Più della metà degli italiani (il 55,5%) pensa che i giovani non trovano lavoro perché non vogliono accettare occupazioni faticose e di scarso prestigio: una valutazione che potrebbe apparire ingenerosa e stereotipata, se non fosse che ad esserne più convinti sono proprio i più giovani, tra i quali la percentuale sale al 57,8%.

Tra le cause di questa situazione il Censis ne individua alcune per cui l'offerta di lavoro non risponde ai requisiti richiesti:

  • perché in pochissimi casi i giovani che si presentano sul mercato del lavoro possono vantare un’esperienza lavorativa alle spalle (mancanza di un’esperienza del tipo formazione lavoro);
  • perché vi è una quota ancora estremamente ampia di giovani che si presenta sul mercato senza un bagaglio di competenze e conoscenze specifiche;
  • perché l’offerta formativa risulta solo in parte adeguata a soddisfare i fabbisogni delle aziende, considerato che nel 26,7% dei casi queste incontrano difficoltà a recuperare le competenze tecnico-professionali di cui hanno bisogno per il ridotto numero di candidati o per la mancanza di preparazione degli aspiranti. È quindi evidente l'insufficienza del sistema scolastico a preparare i giovani per una carriera lavorativa.

    Le imprese italiane sembrano avviarsi verso una “despecializzazione imprenditoriale” Tra il 2000 e il 2009, il tasso di crescita dell’economia italiana è stato più basso che in Germania, Francia e Regno Unito. Questa mino crescita non è imputabile a declino demografico o all’immobilismo del mercato del lavoro. A partire dal 2000, in Italia la popolazione residente è cresciuta del 5,8%, gli occupati dell’8,3% e il Pil dell’1,4% in termini reali. In Germania le variazioni sono: popolazione -0,4%, occupati +2,9%, Pil +5,2%. In Francia: residenti +6,2%, occupati +5,0%, Pil +10,9%. Nel Regno Unito: residenti +4,9%, occupati +5,4%, Pil +13,4%.

    Abbiamo invece motivo di credere che la bassa crescita sia legata ad una minor competitività del sistema industriale italiano. Indicazione in questo senso è la diminuzione della quota dell’export italiano sul mercato mondiale, che è passata negli ultimi nove anni dal 3,8% al 3,5%. Questo ovviamente è il risultato di modifiche di senso opposto, così il nostro posizionamento è migliorato per prodotti come gli articoli di abbigliamento, i macchinari per uso industriale, i prodotti alimentari, e abbiamo perso terreno nei comparti a maggiore tasso di specializzazione, come le calzature (-3,8%), la gioielleria (-4,3%), i mobili (-4,7%), gli elettrodomestici (-5,8%) e i materiali da costruzione (-13,7%). Questo porta al sospetto che strategie di nicchia, design e qualità non bastino più senza maggiori iniezioni di innovazione nei prodotti.

    La stazionarietà del consumo è affiancata da una continua proposta di “offerte” della grande distribuzione lungo tutto l’anno.

    Si registra una crescita del credito al consumo (+5,6% nel 2008 e +4,7% nel 2009), mentre il valore delle operazioni con carte di pagamento ha raggiunto complessivamente i 252 miliardi di euro nel 2009. Hanno contribuito soprattutto le carte di credito (+9% di operazioni rispetto al 2008), le carte prepagate (+23,6%), i bonifici bancari automatizzati (+1,3%).

    Il “credito” però non sempre è un modo corretto di affrontare i problemi di sostegno ai consumi; infatti, secondo il Censis, emergono, in alcuni casi, segnali di difficoltà (fig. 6): tra le famiglie che fronteggiano pagamenti rateali, mutui o prestiti di vario tipo, il 7,8% dichiara di non essere riuscito a rispettare le scadenze previste, il 13,4% lo ha fatto con molte difficoltà, un ulteriore 38,5% con un po’ di difficoltà; e a soffrire di più sono state le famiglie monogenitoriali e le coppie con figli.

    Nonostante la generale propensione a evitare impieghi rischiosi, negli ultimi mesi si registra però il ritorno a un profilo meno prudente nella collocazione del risparmio familiare, con un aumento tra il primo trimestre 2009 e il primo trimestre 2010 delle quote di fondi comuni d’investimento (+29,3%) e delle azioni e partecipazioni (+12,5%).

    Un elemento preoccupante è l'aumento delle voci “obbligate” nella spesa delle famiglie. La spesa media mensile delle famiglie italiane è stimata nel 2009 pari a 2.442 €. Di questi, 1.981€ sono destinati all’acquisto di beni e servizi non alimentari. La spesa media si è contratta, rispetto al dato del 2007, di 38 euro al mese, di cui 5€ della spesa alimentare. Le voci “obbligate” oggi rappresentano poco meno di un terzo di tale spesa., quando era solo il 18,9% nel 1970 e per buona parte si tratta di tassazione occulta o di spese legate a un servizio carente della pubblica amministrazione. Le spese di questo tipo sono:
  • l’abitare (affitti, mutui casa, riscaldamento, forniture energetiche e idriche, smaltimento rifiuti, ecc.);
  • il trasporto privato (polizze assicurative auto e moto, bolli, manutenzione veicoli, acquisto carburante, ecc.);
  • la sanità e alla protezione sociale.

 

La parte di tassazione occulta di queste spese va ad elevare il cuneo fiscale già molto elevato per l'Italia che è calcolato intorno al 46,5%, ma che cresce fino al 49% se si considerano i pagamenti obbligatori non fiscali. Si tratta di una serie di spese imposte, che molto spesso senza alcuna contropartita, possono mettere in crisi i bilanci delle famiglie. E per il prossimo anno l'incidenza di queste spese obbligate aumenterà grazie agli aumenti tariffari che si stima raggiungeranno poco meno di 1.000 euro a famiglia. . La stima complessiva della tassazione occulta è stimata dal Censis per di un valore di 2.289€ all’anno per famiglia (tab. 13).

Ultimo punto negativo segnalato dal Censis nel suo Rapporto Annuale 2010 è che la disponibilità di territorio agricolo si sta erodendo pericolosamente ed è un’erosione non riconvertibile. In Italia, in soli sei anni (dal 2000 al 2006), la quota di territorio nazionale impermeabilizzato è aumentata di ben un punto percentuale, passando dal 5,3% al 6,3%.


Tutte le tabelle e i grafici esposti sono tratte dal 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/ 2010



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