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 Anno VII n° 3 MARZO 2011    -   LENTE DI INGRADIMENTO



1860: Il mistero dei nove
In un racconto, un momento dimenticato della “liberazione garibaldina” a Modica
Di Concetta Bonini


Padre Arcangelo si svegliò di soprassalto con l’insolita convinzione che fosse già giorno inoltrato. Si voltò e vide dalla finestra della sua celletta che il sole non aveva ancora fatto capolino dalla collina di fronte e solo un leggero chiarore avvolgeva la città ancora addormentata. 
Aveva tempo prima di scendere a recitare le orazioni mattutine con i suoi confratelli. Poi si ricordò che quello era il giorno dell’esecuzione e comprese l’origine di quella morsa angosciosa che gli attanagliava il cuore e gli aveva fatto trascorrere una nottata quasi insonne. Si rigirò nuovamente nel letto. Dopo poche ore nove uomini sarebbero stati giustiziati senza pietà e a lui spettava il compito di offrire loro gli ultimi conforti religiosi. 

Quando aveva preso i voti di Padre Cappuccino – ne era passato oramai di tempo - non immaginava certo che avrebbe dovuto assolvere un giorno un compito così grave. Ma da allora troppe cose erano cambiate e il vento di rivolta che aveva appena rovesciato il regime borbonico si era abbattuto anche sulla sua Modica, sottraendole quello stato di provinciale tranquillità che i re spagnoli le avevano sempre garantito. 

Padre Arcangelo se lo ricordava bene quel giorno di Maggio; stava scendendo verso il fiume che attraversava a valle la città quando aveva sentito i giovanotti gridare entusiasti: “Garibaldi! Garibaldi! Garibaldi è sbarcato a Marsala”. 

La novità rappresentava per quei poveri ragazzi la speranza di riscatto. Non sapevano neppure che faccia avesse Garibaldi, ma lo avrebbero seguito perché questo significava inseguire il loro sogno, tentare di invertire la rotta dei loro destini, già indirizzati verso la miseria che aveva avvolto quelli dei loro genitori e progenitori. 

Quelle mille camicie rosse e le molte altre che vi si aggiunsero in pochi giorni portavano idee capaci di destare la massa contadina di tutta la Sicilia da un torpore di secoli. Lo spirito della rivoluzione aveva infiammato gli animi risvegliando tutta la rabbia sopita per generazioni contro i grandi proprietari terrieri. Li avevano sfruttati senza moderazione, condannandoli ad una vita di sacrifici e di stenti, senza neppure la consolatoria speranza di immaginare un futuro diverso per i loro figli. 

Garibaldi invece, tutti ne erano certi, stava dalla loro parte, non li avrebbe delusi; infatti aveva subito decretato la spartizione delle terre comunali tra tutti coloro che avevano combattuto al suo fianco per la libertà. Così la libertà dai Borboni equivaleva per loro a libertà dall’indigenza. 

Ma Padre Arcangelo aveva visto confermata la sua diffidenza nei confronti del Liberatore non appena aveva avuto notizia delle rivolte di Alcara li Fusi e poi di Catania e Bronte e di altri paesi dell’entroterra e persino dei dintorni modicani. Quelle rivolte, che spesso erano degenerate in atroci omicidi, erano state sedate con una serie di esemplari esecuzioni sommarie. Padre Arcangelo aveva pregato affinché Dio volesse serbare Modica immune da tali massacri e aveva avuto fiducia, soprattutto perché a Modica non c’erano terreni demaniali da dividere. Ma le sue preghiere erano state vane. 

Anche qui si erano verificati diversi episodi, sulla cui natura per la verità circolavano voci contrastanti, e nel mezzo c’erano finiti nove poveri disgraziati, nove giovani teste calde che si erano lasciate trascinare dall’entusiasmo del sogno di riscatto. Erano stati portati nel vecchio Castello Comitale, ora ridotto al rango di carcere. 

Padre Arcangelo ne aveva saputo ben poco: un alone di segretezza circondava la vicenda e questo aveva incoraggiato parecchio la fantasia popolare. Dalle voci della gente, era riuscito a cogliere quel poco che di vero sicuramente c’era: i nove erano sotto processo della Curti Subitania, una delle tante Commissioni Speciali che Garibaldi aveva sostituito ai vecchi organi giudiziari. 
Il processo, questo era chiaro a tutti, veniva condotto in maniera del tutto sommaria. 

Ancora disteso sul letto, Padre Arcangelo si sentì tremare ricordando il momento in cui, qualche giorno prima, gli avevano annunciato che i nove erano stati condannati a morte mediante fucilazione per brigantaggio, furto e altri gravi delitti non meglio definiti; e lui era uno dei Padri designati a confortare le loro ultime ore. 

Si alzò e poco dopo era già nel cortile del convento. Padre Girolamo e Padre Felice lo aspettavano. Quella mattina non avrebbero recitato con gli altri le orazioni: un compito ben più triste li attendeva. 

Si avviarono silenziosamente verso il Castello. Nessuno di loro proferì parola e del resto non era necessario: tutti avevano nel cuore lo stesso cupo timore. 
Quando si trovarono di fronte ai nove uomini disperati che piangevano e bestemmiavano, sentirono di non essere all’altezza, di avere loro stessi bisogno di conforto. Tuttavia li confessarono, sostenendoli meglio che poterono, e li comunicarono. Padre Arcangelo li guardava con il cuore ricolmo di pietà. 
Tre di loro erano poco più che ventenni, quasi tutti erano sposati e avevano a casa figli piccoli che non sapevano ancora di essere destinati a crescere orfani e nella stessa miseria contro la quale i loro padri avevano lottato invano. Padre Arcangelo fu sicuro che quella non poteva essere giustizia. 
Ma non ebbe tempo per approfondire queste riflessioni. Uno degli uomini lo chiamò, l’unico che fino a quel momento era rimasto zitto, seduto a terra a testa bassa, stringendo e accarezzando senza posa un’immaginetta della Madonna. 

“Padre - gli disse - non le ho detto tutto in confessione. Io con questi qui non c’entro niente. Sono innocente. Ma sono contento di morire così, è la morte che mi merito di fare, la giusta punizione del mio peccato. Me lo porto dentro da tanto tempo, mi sta consumando, Padre. Tanti anni fa mia moglie è morta per far nascere mio figlio e io... “, si prese la testa tra le mani e si asciugò le lacrime che gli rigavano il volto, poi continuò: “…io ero disperato e …l’ho ucciso! Ho ucciso mio figlio! E’ giusto che io faccia questa morte atroce. Ma sa Padre, questa notte la Marunnuzza mi ha detto che non devo avere paura, che non soffrirò…”. 

Padre Arcangelo avrebbe voluto dirgli tante cose, ma era arrivato il momento del congedo. 

Arrivarono le Guardie, legarono i condannati e li portarono via. 
I padri li seguirono, con la mente affollata di pensieri e di dubbi, con la pena di sapere che quei poveracci non avrebbero avuto nemmeno degna sepoltura, che sarebbero stati infossati segretamente e mai nessuna lapide ne avrebbe portato la memoria. 

I nove furono fatti sedere in fila. Padre Arcangelo posò lo sguardo sull’uomo che teneva ancora in mano l’immaginetta stropicciata: stava tremando, all’improvviso chinò il capo e morì silenziosamente; laMarunnuzza gli aveva detto la verità. 

Fu dato il segnale. 
I colpi tuonarono nella città, attraversarono i suoi vicoli, scossero le sue mura di un fremito effimero, ben presto svanito nello scorrere imperterrito e sonnolento dei giorni, ridotto a non più di una virgola nella memoria della Contea. 

La Storia distrattamente dimenticò di annotare la vicenda dei nove, confinandola tacitamente nel labile ruolo di misera leggenda di antieroi.



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