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 Anno VII n° 8 AGOSTO 2011    -   TERZA PAGINA



Lautrec – illustrazioni e manifesti
Scritto per la mostra “TOULOUSE-LAUTREC e la Parigi della Belle Époque”, alla Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversatol, Parma dal 10 settembre all' 11 dicembre 2011


All’inizio della sua attività d’illustratore e pubblicista, Lautrec procede nel suo lavoro a ritmo sostenuto, dando vita a decine e decine di litografie, a partire dalla prima che è poi un manifesto, la famosa affiche “Moulin Rouge, la Goulue”, realizzata nel 1891 per il locale di Charles Zidler. L’intera produzione litografica dell’artista francese sarà costantemente segnata dai due filoni dell’illustrazione e del manifesto, due gruppi ben differenziati a partire dal 1893: da un lato le stampe destinate agli album, ai giornali, ai programmi teatrali e così via, dall’altro le affiches pubblicitarie. E questa non rimarrà la sola costante dei lavori litografici, ma ce ne saranno altre, come per esempio la presenza degli stessi personaggi tanto nelle stampe-illustrazioni quanto nei manifesti, oppure la tendenza a una produzione seriale. Caratteristiche, del resto, entrambe non esclusive delle sole opere a stampe ma anche di dipinti e disegni.

La serialità nelle stampe si manifesta anche questa in modo sistematico a partire dal 1893, col ciclo del “Café-Concert” (in collaborazione con Ibels). La tendenza è indipendente dal fatto che la serie sia concepita o meno, fin dall’inizio, in forma di cartella-album dal contenuto omogeneo: le litografie di Lautrec prendono infatti “spontaneamente” la fisionomia del ciclo d’illustrazioni. Oltre al “Café-Concert”, altre importanti serie sono per esempio quelle delle “Vieilles histoires”, destinata a copertine di canzoni, o le dodici litografie teatrali pubblicate nel 1893 nella rivista “L’Escarmouche” (tra cui quelle con Marcelle Lender al Théâtre des Varietés o con Sarah Bernhardt in “Fedra” al Théâtre de la Reinassance). Un album vero e proprio è invece quello dedicato nel 1984 alla cantante Yvette Guilbert, sedici litografie accompagnate da un testo di Gustave Geffroy nelle quali il segno graffiante e sintetico di Lautrec è stimolato più che mai dal particolare dei lunghi guanti neri che caratterizzavano il personaggio. Per anni Lautrec esegue stampe e manifesti indimenticabili. Poi, nella fase finale del suo percorso creativo, ormai alcolizzato, minato nel fisico e nel morale, Lautrec lavora molto meno, ma dalle sue mani usciranno ancora poche preziose gemme come La Gitane del 1900, un manifesto per il teatro che può essere considerato una sorta di testamento nel campo della sua produzione litografica.

Nel tracciare il motivo direttamente sulla pietra litografica Lautrec si mostra straordinariamente abile. Pennello, tecnica a spruzzo e matita grassa, da soli o in combinazione, sono i metodi da lui usati nelle litografie. Un cenno particolare merita lo spruzzo, una procedura che, se non è stata inventata da Lautrec, viene però da lui portata a livelli di estrema perfezione e raffinatezza. Con lo spruzzo, si possono creare le più sottili sfumature di colore e ottenere effetti di grande trasparenza e leggerezza. Solitamente, questa tecnica si pratica con l’aiuto di uno spazzolino da denti o da unghie che viene immerso nell’inchiostro grasso facendo poi scorrere sulle setole la lama di un coltello in modo da spruzzare una pioggia di goccioline sulle parti da colorare. Si capisce bene con quanta destrezza debba essere condotta questa delicatissima operazione nella quale Lautrec si rivela decisamente un grande.

L’intero complesso delle litografie ha assicurato una notevole notorietà all’artista francese ma, come si è già detto, sono soprattutto i manifesti che ne decretano già in vita il successo di pubblico mantenendo poi intatta nel tempo la sua fama e la sua attualità. Tale risvolto e l’adesione di Lautrec a una produzione scopertamente commerciale fanno però emergere una contraddizione con quello che era lo stile di vita anticonformista del personaggio e con i contenuti trasgressivi della sua arte. Lautrec insomma non sembra sfuggire a ciò che ancora oggi finisce inevitabilmente per colpire un artista “outsider” o un movimento di avanguardia premiati dal successo: alla lunga il consenso ne smorza la carica eversiva.

Nell’opera di Lautrec i lavori “promozionali”riguardano sia le stampe-illustrazione che i manifesti, ma è senza dubbio con questi ultimi, grazie al loro stile ardito e straordinariamente innovativo per i tempi che si apre di fatto il capitolo della pubblicità modernamente intesa, affidata cioè a un’immagine capace di veicolare un messaggio in modo particolarmente efficace, a uno stimolo visivo che sappia “agganciare” l’osservatore andando dritto allo scopo e restando indelebilmente impresso nella sua mente.
Alla fine dell’Ottocento il manifesto era infatti un genere ancora “sperimentale”, il campo privilegiato di una ricerca estetica condotta sul grafismo e sul colore. La più recente tradizione del manifesto parigino aveva il suo campione in Jules Chéret e nei suoi epigoni. I suoi manifesti, molto apprezzati dal pubblico di fine Ottocento, sono certamente immagini di squisita fattura e dal tono fresco e leggero, ma in modo analogo alle immagini degli illustratori alla moda dello stesso periodo hanno il limite di non riuscire a superare i caratteri di una produzione in fin dei conti superficiale e aneddotica, spesso dolciastra e ammiccante, che andava disinvoltamente incontro ai gusti facili della borghesia.

Nel 1889, il manifesto di Chéret per l’apertura dal Moulin Rouge presentava, al solito, un’immagine brillante e gradevole ma se paragonato a quello ideato da Lautrec nel 1891 per lo stesso locale appare decisamente scontato e povero di idee. In effetti, già questa prima litografia di Lautrec rompe in modo netto con lo stile del suo predecessore. I contrasti di colore, l’inquadratura insolita della scena, introdotta dalla sagoma di Valentin le Desossé, grande “ombra” in primo piano cui fanno da contrappunto le nere silhouette del pubblico in controluce sullo sfondo (un’allusione alle ombre cinesi degli spettacoli in un altro dei famosi locali di allora, lo Chat Noir?) e, al centro, il bianco dei mutandoni svolazzanti della Goulue che alza la gamba nelle movenze del can-can sono di sicuro impatto e portato subito lo spettatore “in media res”, fornendo informazioni esplicite sul luogo pubblicizzato. Col “prodotto”, cioè, l’immagine di Lautrec stabilisce un rapporto diretto ed essenziale, non un legame “esteriore” e marginale come nel caso del manifesto di Chéret. Nel 1891 “Moulin Rouge, la Goulue” invade i muri di Parigi. Per una volta, la novità, che in questo caso significa anche qualità, viene premiata e da un giorno all’altro Lautrec, che ha allora ventisette anni, diventa famoso.

Nei manifesti l’artista francese dà il meglio di sé quanto a inventiva tecnico-artistica. Essendo a colori, le affiches appartengono a un gruppo di litografie più elaborate rispetto a quelle monocrome in nero, sanguigna o verde oliva. Ma il risultato, nei manifesti di Lautrec, è uno stile particolarmente semplice ed essenziale, costruito sulla stilizzazione del segno e sulle grandi campiture “a piatto” riempite con colori vividi e intesi (celebri i suoi neri profondi, per esempio, o il verde oliva delle scritte), pigmenti spesso preparati appositamente dallo stesso artista. Nell’elaborazione quelli che a buon diritto si possono considerare archetipi del manifesto pubblicitario moderno, Lautrec capisce alcune regole fondamentali su come catturare l’attenzione del pubblico. Si rende per esempio conto che per essere efficace l’immagine deve essere studiata tenendo presente il punto di vista da cui sarà guardata e anche la presumibile durata del tempo che verrà dedicato alla sua osservazione. «Con Lautrec e i suoi manifesti, l’arte scende in strada», diceva giustamente Thadée Natanson; anzi, dalla strada molti se li portavano a casa i manifesti, staccandoli dai muri, e i critici come Félix Fénéon invitavano addirittura a farlo, come testimonia un suo scritto sulle pagine della rivista anarchica “Le Père peinard”.

Se dunque col manifesto l’arte va oltre la cerchia dei critici e collezionisti, portando a un allargamento democratico della fruizione artistica (obiettivo peraltro mai perseguito da Lautrec), dall’altro ciò fa sì che i parametri di quella fruizione debbano necessariamente cambiare. Lautrec lo capisce subito, di conseguenza non concepisce i suoi manifesti come se fossero opere da esporre in una mostra o in un museo. Nelle affiches ogni traccia del “naturalismo” pittorico, in particolare artifici come il chiaroscuro o l’illusione della tridimensionalità, scompare, cos’ come viene eliminato in molto dei manifesti ogni dettaglio realistico dello sfondo che adesso diventa spesso un semplice fondale a tinta unita, quasi assumendo i caratteri di un sipario chiuso alle spalle della vedette ritratta o di un pannello di scena che suggerisce in modo stilizzato il contesto. Lautrec comprende perfettamente che le affiches si devono poter vedere anche da lontano e sa che per strada i passanti difficilmente indugeranno a lungo davanti alle sue immagini. Di conseguenza, il tratto sarà il più incisivo possibile, i colori decisi e le superfici estese; e, ancora, le figure saranno sufficientemente grandi e l’immagine riconoscibile e comprensibile a colpo d’occhio, con qualcosa di assolutamente originale che colpisca al primo sguardo. Insomma, il massimo del risultato col minimo dei mezzi. Nel 1893 Félix Fénéon riassumeva così la maestria di Lautrec nel realizzare i suoi manifesti: «Bianco, nero, rosso in grandi chiazze: ecco tutto il suo armamentario». E Picasso renderà omaggio al Lautrec dei manifesti inserendo l’affiche di “May Milton”, del 1895, nel suo dipinto “La camera blu”.

Su trenta manifesti realizzati, molti diventeranno famosissimi, come quelli dedicati nel 1892 all’amico chansonnier Aristide Bruant e alle sue esibizioni all’Ambassadeurs e all’Eldorado, oppure l’affiche realizzata lo stesso anno per il libro scandalo di René Joze “Reine de joie”, o ancora il manifesto di “Jane Avril al Jardin de Paris”, del 1893, che è anche l’anno di esecuzione dell’originalissimo “Divan Japonais”, dove stavolta l’elegante e raffinata silouhette di Jane Avril, altra dominatrice dei palcoscenici dell’epoca, è ritratta in veste di spettatrice nel locale che il manifesto reclamizza: trovata geniale e modernissima per cui la famosa vedette fa da “testimonial”, si direbbe oggi, a questo caffè-concerto dall’atmosfera esotica. Particolarmente ardita è poi, in secondo piano, la figura di un’altra famosa star cara a Lautrec, Yvette Guilbert, qui “decapitata” dal taglio dell’inquadratura ma riconoscibile dai lunghi caratteristici guanti neri.


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TOULOUSE-LAUTREC e la Parigi della Belle Époque
Alla Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversatol, Parma dal 10 settembre all' 11 dicembre 2011



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