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 Anno VIII n° 6 GIUGNO 2012    -   TERZA PAGINA


Leggendo “L'uomo di superficie” di Vittorino Andreoli
“La ricchezza dentro la mente”: per quanto ancora?
Considerazioni sulla crisi economica che viviamo sulla base del boom che abbiamo vissuto
Di Giovanni Gelmini


Prendo dall'ultimo libro di Vittorino Andreoli, “L'uomo di superficie”, l'idea e mezzo titolo di questo mio articolo. Il suo capitoletto, infatti, si chiama “La povertà dentro la mente”, perché lui parte dalla seconda guerra mondiale per arrivare alla vita che conosciamo oggi. Oggi abbiamo la ricchezza come nostro schema mentale, ma noi adesso dobbiamo fare il percorso inverso: tornare da una vita di ostentazione e dell'usa e getta ad una vita parsimoniosa, perché le prospettive per alcuni decenni non sono di grande espansione, anzi vi saranno molti anni di ristrettezze.

Donald J. Siegel afferma che “la mente è il prodotto delle interazioni fra esperienze interpersonali e strutture e funzioni del cervello”: quello che si chiama cervello plastico, che si adatta al cambiamento del mondo esterno. Andreoli si pone come esempio di questi cambiamenti e nel suo libro usa i fatti della sua vita, ci racconta così il tempo e nel capitoletto citato quando la parsimonia era l'imperativo per sopravvivere.

    Durante la guerra non c'era nulla e quindi non c'era scelta: si doveva aver cura del poco che avevamo nel timore che diventasse, per l'appunto, nulla. Si avvertiva un sacro rispetto per il non consumo, per il risparmio, e così anche i poveri avevano da parte qualcosa, per la povertà del domani.
Andreoli mi sembra colga l'elemento essenziale della differenza tra il periodo antecedente agli anni '70 e oggi: il risparmio e il debito. Allora nessuno se la sentiva di fare debiti e tutti avevano qualcosa da parte per “le emergenze” o per “la vecchiaia”: un libretto di risparmio o magari un po' di soldi sotto il mattone e quelli erano intoccabili.

Giusto per portare la mia testimonianza di come era radicato quel concetto, vi racconto un fatto avvenuto all'inizio degli anni '70, quando arrivai alla decisione di sposarmi. Con la mia futura moglie iniziammo a “cercare casa”. Trovammo un appartamento in una casa in costruzione delle dimensioni giuste per noi anche per il futuro: c'erano ben tre stanze da letto. La cifra era abbordabile: 12 milioni di cui 5 da dare in contanti e mutuo ventennale di 7 milioni a interessi agevolati (forse era il 5%).
I cinque milioni ovviamente non li avevo, ma partecipavo ad una cassa integrativa che me li avrebbe dati in prestito ancora con un mutuo ventennale al 3% di interessi, ma questo al rogito. Non era una pazzia perché complessivamente sarei venuto a pagare una rata piccola inferiore agli affitti che circolavano. Ho chiesto allora a mio padre di anticiparmi i cinque milioni, ma lui, che era contrario a far debiti, anche per acquistare un appartamento, me li negò.
Cosi non feci nulla, ma cinque anni dopo il progetto si realizzò in modo molto diverso. La casa non era vicino al centro della città, ma in mezzo ai campi, costò 21 milioni di cui 15 di mutuo al 15,20% e, malgrado l'innalzamento del prezzo e degli oneri finanziari ben più pesanti, si dimostrò un grossissimo affare. Pensate cosa sarebbe stato se avessi concluso con la prima idea. Ma la mentalità era quella e Andreoli ci ricorda:
    Nel dopoguerra la ripresa fu immediata, ma la mentalità non cambiò altrettanto in fretta. Per anni dominarono ancora la parsimonia, la preoccupazione del futuro, un futuro sempre più lontano, che si spostava in avanti all'infinito. Un futuro imprevedibile che, a quanto si sapeva, poteva anche diventare peggiore del peggio che la guerra ci aveva mostrato. Così, nel dubbio, non si spendeva, e si era ossessivamente attenti allo spreco.
Il tempo cambiò la mentalità, per prima cosa nei giovani di allora a ancora Andreoli ci confessa:
    Quando finalmente mi affrancai da questa mentalità, mi parve di vedere il mondo diversamente. Spendere non era più un peccato, divenne l'opportunità per fare cose nuove, per regalarmi esperienze che certo la mamma avrebbe definito futili e dispendiose. Cominciai a provare il piacere di entrare in un negozio per comperarmi una cravatta o un paio di scarpe, persino in quelli frequentati dai miei compagni di corso che passavano per degli elegantoni e giravano in spider mentre io avevo ancora la bicicletta comperata al mercato studentesco, da rivendere dopo la laurea trattando sul prezzo.

    Stavo scoprendo il gusto di fare cose per il gusto di farle, di spendere per qualcosa che non era necessario ma piacevole. A considerare la vita come un' avventura, non solo guidata dal dovere e dalla paura, ma anche da un po' di follia e dal coraggio.
Cosi cambia il modo di vivere, prima il piacere del superfluo e poi si arriva anche al piacere di “far vedere”, all'ostentazione e alla ricorsa della “firma”, anche se è un inutile costoso sovrapprezzo. Così se prima gli abiti erano sistemanti e duravano fino a quando l'usura non imponeva di farne stracci per la polvere, oggi niente si ripara, anche perché spesso il riparatore non si trova o il prezzo di una cosa nuova è inferiore al costo della prestazione dell'artigiano.
È arrivata così l'epoca dell'usa e getta, dei precucinati, delle verdure prelavate, ma tutto questo ha un costo. Possiamo dire parafrasando il titoletto di Andreoli che oggi abbiamo la ricchezza dentro la mente

Da quattro anni ormai viviamo in una crisi economica molto dura. di cui non si vede ancora l'uscita. I soldi a disposizione per le spese personali sono diminuiti quasi per tutti per effetto delle tasse e dell'inflazione non recuperata.
Primo effetto, le statistiche parlano chiaro: i consumi sono diminuiti.

Le banche hanno chiuso i rubinetti, non concedono più prestiti se non hanno garanzie reali, cioè è ancora più vera la diceria che danno i soldi solo a chi li ha. Quindi difficile comprarsi la casa dove abitare e gli affitti sono altissimi, ma anche difficile fare qualunque spesa importante, auto elettrodomestici o altro, senza pagare fior di interessi.
Secondo effetto: non si possono più acquistare beni durevoli se non si hanno soldi messi da parte.

La situazione del lavoro è sempre più precaria, la disoccupazione aumenta, i fallimenti di imprese sono sempre più frequenti ed è facile che un fallimento coinvolga altre aziende, così il lavoro sicuro diventa un mito del passato. All'insicurezza del posto di lavoro si aggiungono i continui disastri del territorio che danno da pensare per il futuro.
Terzo effetto: il futuro non è più visto con tranquillità e in sicuro miglioramento.

Insomma il quadro che emerge è sempre più simile a quello descritto da Andreoli per l'immediato dopo guerra.

Alcuni effetti di questa situazione sono stati immediati: si è speso meno per l'abbigliamento e per l'alimentazione. A tavola vi è stato un cambiamento nei prodotti messi in padella, con la riscoperta di prodotti più economici e con una maggiore attenzione a non sprecare. L'abitudine di andare via da casa nelle feste e di cenare fuori si è ridotta drasticamente, ma anche nell'uso dell'auto tutti i giorni la gente è più attenta.

C'è chi ha iniziato a coltivare ortaggi sul terrazzo e nel giardino e chi scopre che anche prugne, pesche e susine fanno fiori stupendi, oltre a buoni frutti. Chi ha iniziato a coltivare ortaggi e frutta scopre che i prodotti così ottenuti hanno sapore, mentre i frutti che si possono acquistare nei supermercati sono palle senza profumo e senza sapore. Anche chi ha rinunciato ai piatti preparati e si è messo ai fornelli ha scoperto che cucinare non è poi così difficile, ci sono tanti piatti veloci da fare che, anche in questo caso, hanno poi sapori ricchi, che danno soddisfazione al cuoco, ai commensali e al borsellino.

Queste sono le prime avvisaglie di un cambiamento in atto: la nuova situazione inizia a modificare il nostro cervello plastico che si riorganizza per trovare non solo soluzioni al disagio che ora viviamo, ma addirittura nuovi piaceri. Certamente un processo lento, ma la “crisi” non sarà breve, darà tutto il tempo al nostro cervello di modificarsi per trovare un nuovo equilibrio.

Non credo che si tornerà a quanto è stato vissuto mezzo secolo fa: non torneremo alla “povertà dentro la mente”, ma a una ricchezza più consapevole, meno sprecona, più rispettosa della persona e dell'ambiente.
Un utopia? Forse, ma per uscire dallo stato in cui siamo dobbiamo credere in un'utopia che possa trascinarci.



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