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 Anno VIII n° 7 LUGLIO 2012    -   TERZA PAGINA



Jordí Bernadó: “Etnodesign”
Il titolo di questo testo è mutuato a una fotografia di Jordi Bernadó che mostra, in Spagna, il muro di un albergo recante il nome del fotografo. Ma come nel caso di «Welcome to Espaiñ», l'ortografia del nome proprio è storpiata, così come quella di «Etnodesign» è fantasiosa. Ciò nonostante questa bizzarra formula lascia trasparire qualcosa di esatto a proposito del lavoro del fotografo: vi è un approccio etnologico in ciò che egli propone, e il design, un certo senso della forma, non è così estraneo al suo metodo
Di Gabriel Bauret


Jordi Bernadò: Barcelona - 2002, © Jordì Bernadò
Passando in rassegna l'insieme delle opere di Jordi Bernadó dai suoi esordi, appare chiaramente come siano innanzitutto le città ad attirare lo sguardo del fotografo. Città che hanno una storia, che rappresentano un'industria, una cultura, una civiltà: ad aprire questo insieme è Berlino, all'inizio degli anni '90, vale a dire poco dopo la caduta del Muro. Poi sarà la volta delle grandi metropoli: americane come Atlanta e Detroit, cinesi con Shanghai, e giapponesi con, tra le altre, Tokyo e Nagoya.

Da dove deriva questo interesse per il paesaggio urbano?

La risposta risiede probabilmente nella formazione di Jordi Bernadó, negli studi di architettura, che lo orientano verso tutto ciò che concerne lo spazio edificato. Leggendo più da vicino la sua biografia, si constata tra l'altro come abbia fatto parte del comitato editoriale di una rivista catalana di architettura e urbanistica dal 1990 al 1999(1). Inoltre, collabora strettamente con Ramon Prat, direttore delle edizioni Actar - con sede a Barcellona e specializzate in design, architettura e urbanistica - e autore di testi su numerose opere del fotografo, principalmente su Berlino e Atlanta.

A Berlino, Jordi Bernadó lavora in bianco e nero. Seguendo un metodo simile a quello dell'italiano Gabriele Basilico, che egli considera un maestro in materia: il confronto dei due lavori contemporanei di Bernadó e Basilico sulla città tedesca, rivela numerose affinità. Ma se si considera ciò che il catalano ha prodotto in Spagna, in particolare l'insieme di fotografie esposte oggi, si misura il cammino percorso, tanto dal punto di vista della forma che del soggetto della fotografia. Tra la sequenza su Berlino e i suoi lavori attuali, si percepisce una grande varietà di stili e preoccupazioni, senza per questo arrivare a dire che vi sono più Jordi Bernadó: qualcosa di profondo guida il suo percorso, ed è ciò che è interessante mettere in luce al di là della pluralità delle sue produzioni.

Joan Fontcuberta, nella prefazione di uno dei libri di Bernadó, «Good News»(2), riassume il contesto storico della fotografia di paesaggio di cui riporta alcuni momenti significativi; tra gli altri, negli anni '70, il movimento americano della nuova topografia. Quest'ultimo è rappresentato in un'esposizione a Rochester il cui titolo è davvero eloquente: «New Topographics: Photographs of a Landscape Altered by Man»(3). Joan Fontcuberta non intende sostenere che Jordi Bernadó segua questo movimento o alcuni dei suoi protagonisti come Lewis Baltz e Robert Adams.
Jordi Bernadò: Barcelona - 2007, © Jordì Bernadò
Egli ci ricorda soltanto che la fotografia può essere più che uno strumento di pura documentazione.
Essa è portatrice di un punto di vista, di un impegno, senza necessariamente arrivare a essere una forma di denuncia e rivestire una dimensione politica. Jordi Bernadó non è neppure un fotografo dell'oggettività documentaria; non è animato da quello spirito di inventario che Bernd e Hilla Becher hanno trasmesso a una generazione di fotografi tedeschi che ha fortemente impresso il proprio marchio nel contesto dell'arte contemporanea. Attraverso la sua pratica della fotografia egli afferma una personalità originale e molto sfumata, dal momento che il suo metodo, il suo stile, non sono influenzati unicamente dalla storia della fotografia o da quella dell'arte. Alcuni suoi atteggiamenti nei confronti della realtà che lo circonda si nutrono ugualmente di letteratura. In particolare nel suo lavoro recente sulla Spagna che oggi ci è dato di apprezzare.

Di Berlino, nel lavoro realizzato nel 1993 su questa città che stava riemergendo dal grande sconvolgimento che aveva conosciuto, Jordi Bernadó dà una visione piuttosto cupa e disincantata, come testimonia questo commento: «Queste fotografie catturano un momento specifico, come fissato nel tempo, rappresentano una Berlino che non esiste più ma che ancora sopravvive»(4). Il fotografo documenta infatti un territorio di mezzo, quello che in inglese si designa con l'espressione in-between. In queste immagini, il passato che perdura si dispiega in primo piano, mentre l'avvenire si delinea sullo sfondo. A una pratica relativamente neutra quanto allo stile, se non austera, si mescola il desiderio di pronunciarsi, di dare forma a un punto di vista.

Ad Atlanta, poco dopo aver esplorato Berlino, Jordi Bernadó conduce un lavoro assai diverso, nel quale si manifesta una volontà di comprendere la struttura del tessuto urbano, raggiungendo in questo la ricerca di Gabriele Basilico. Non si tratta più del clima storico nel quale la città è immersa, come nel caso di Berlino; il fotografo descrive qui una modernità e in un certo senso una complessità: «Una visione obiettiva, costruttiva e incisiva che rivela come Atlanta sia un paesaggio piuttosto che una città»(5).
Certo, l'architettura contemporanea s'impone e beninteso attira lo sguardo di Bernadó, ma non sono queste opere che in fin dei conti guidano la sua ricerca. Il suo interrogarsi è altrove: nell'urbano e nel sociale.
Come si vive in questo universo?
Qual è il posto dell'uomo?
Si vedono così profilarsi alcune domande che alimenteranno nuovi lavori, in particolare in Giappone. D'altra parte, se Bernadó interroga la realtà, sembra che sia la stessa cosa riguardo la sua fotografia. È così che nel corso del suo lavoro su Atlanta, egli adotta il colore al quale la sua pratica sarà ormai sempre più legata. Un colore che serve al suo fine ultimo. Elemento principale della composizione ma che Bernadó non cerca di forzare per produrre effetti.

A Detroit, il fotografo prosegue un lavoro in relazione a ciò che aveva intrapreso a Berlino. Le immagini mostrano una realtà nella quale le tracce del passato figurano in primo piano. Il clima è pesante: Detroit, una delle capitali mondiali dell'industria dell'automobile, è ormai solo l'ombra di se stessa. In certe zone è come se avesse smesso di vivere: desertificazione dei quartieri, deterioramento inarrestabile degli edifici. Il vuoto e il silenzio s'insediano. E il contrasto con l'universo che il fotografo aveva descritto ad Atlanta è sorprendente.
 
Jordi Bernadò: Boñar - 2006, © Jordì Bernadò
La scrittura visiva riveste un carattere sperimentale e se non altro audace: Bernadó azzarda delle panoramiche verticali e le monta addirittura in dittici. Panoramiche e dittici s'impongono del resto nel corso di questo periodo come i suoi marchi di fabbrica. A tal punto che due dei suoi libri, «Good News» e «Very very bad news»(6) sono concepiti all'italiana in uno stesso formato molto allungato, il che è piuttosto raro nell'editoria.
Ci si potrebbe chiedere allora perché questa insistenza a procedere in questo modo. Vi è una certa logica: il fotografo è guidato dal desiderio di ampliare la propria visione, di inglobare più informazioni, più segni. Il paesaggio urbano è un formidabile serbatoio da cui egli attingerà con sempre più gusto, il che non significa che si compiaccia nella profusione; egli opera piuttosto con riserbo. Quanto all'utilizzo del dittico, non è legato a una semplice fantasia - anche se questa è lungi dall'essere assente dalla personalità e dall'opera di Jordi Bernadó - il fotografo sembra guidato piuttosto dalla curiosità, quella di guardare le cose da diverse angolature, adottando ad esempio il principio cinematografico del campo-controcampo.

Il Giappone non poteva non attirare Bernadó, con il suo paesaggio urbano che si disegna in modo così particolare nella capitale. Tokyo è, per il viaggiatore occidentale, una scoperta estremamente sorprendente.
Città distrutta e ricostruita a più riprese, nella quale le prospettive, se ve ne sono, sono totalmente estranee a quelle che conosciamo in Europa e negli Stati Uniti. Un'altra logica guida i costruttori.
Bernadó fotografa la capitale nipponica nel 1997 e nel 1998, operando essenzialmente in esterni e continuando a ricorrere alla panoramica e al colore. Naturalmente, non può mancare di soffermarsi su ciò che rappresenta il carattere spettacolare di questa città: le arterie affollate di persone che vanno di fretta e, in certi crocevia molto frequentati, l'affastellarsi dei cartelli pubblicitari. Al suo ritorno in Giappone, appena tre anni più tardi(7), lo sguardo si sposta. Egli esplora quello che accade all'interno degli immobili e si avvicina alla popolazione, senza tuttavia che questa rappresenti il suo soggetto principale. Sembra conferire al suo lavoro un orientamento nuovo: cultura e società fanno maggiormente parte delle sue preoccupazioni.
Ma, più che dare risposte, egli si pone delle domande. Ci porta a interrogarci su cosa il mondo occidentale abbia in comune con questo universo nipponico e su cosa invece rappresenti una differenza. Tutto ciò che è relativo allo spazio, è probabilmente ciò che lo appassiona di più.
Nelle grandi metropoli giapponesi, si sa, lo spazio è quel che più vi è di prezioso e la sua esiguità induce comportamenti particolari, se non abitudini di vita che per noi sono difficilmente concepibili. Diverse fotografie pongono così l'accento, non senza ironia, sul modo in cui i giapponesi sognano lo spazio: ad esempio un paesaggio incantevole riprodotto su un muro che costeggia un parcheggio di automobili situato in pieno centro. O ancora, porzioni di cielo blu punteggiate di leggere nuvole bianche che compongono l'arredo dei negozi.

Parallelamente al suo lavoro in Giappone, Jordi Bernadó non ha potuto non arrivare in Cina per fotografare la città di Shanghai. Questa, si sa, ha mostrato la sua apertura al mondo contemporaneo sviluppando una politica di edificazione sfrenata. Un po' come Mosca, ai tempi di Stalin, ha voluto copiare Manhattan. A differenza di ciò che ha potuto realizzare in Giappone, e a Nagoya in particolare, questa volta la fotografia verte maggiormente sul dispiegamento nello spazio urbano di un'architettura dalle linee e dai materiali molto contemporanei. E Bernadó continuerà in altri continenti la sua esplorazione di queste metropoli moderne i cui spazi sono punteggiati degli stessi slanci architettonici, recandosi in Australia e in Canada.

Ma nel mezzo, o piuttosto a margine di questo grande tour, figura una serie che incarna un aspetto diverso. Si tratta di un progetto a carattere ludico, che Bernadó realizza negli Stati Uniti dove un numero inatteso di località porta nomi di città celebri di altri continenti.
A partire da Parigi, situata nello stato del Texas, che è anche il titolo di uno dei film di Wim Wenders. Jordi Bernadó attraversa gli stati del Texas, dell'Illinois, della Pennsylvania e di New York, verso questi luoghi i cui nomi sono carichi di storia e di cultura, ma la cui realtà non corrisponde in nulla all'originale.
Così, egli ci mette a confronto con il vuoto, o con un'evocazione irriverente di questo originale, come quella torre Eiffel insensatamente posta accanto a un parcheggio e sormontata da un cappello rosso, a Parigi nel Texas per la precisione. Bernadó porta così lo spettatore di questa serie di immagini a interrogarsi sulla relazione tra i segni che compongono un paesaggio e la didascalia che accompagna la foto; sul divario tra l'immagine e la parola, tra ciò che è visto e ciò che è detto. E al di là di questo divario, di questo iato che crea la sorpresa, si profila una riflessione sulla cultura americana; in generale sulla storia di questo paese la cui identità si fonda su una collezione di prestiti. Una serie alla quale il fotografo ha attribuito il titolo di «Welcome Utopia»: tutto un programma!

Lo stesso Jordi Bernadó ci tiene a sottolinearlo, trattandosi dell'insieme dei lavori che ha realizzato fino ad oggi: se nelle sue immagini le cose appaiono assurde, è perché lo sono realmente.
Bernadó non aggiunge nulla, è innanzitutto uno spettatore del mondo che lo circonda, uno sguardo dei più acuti. Il suo talento risiede in primo luogo nella sua capacità di soffermarsi su un dettaglio del paesaggio che per lui ha significato. Un dettaglio o ancora una congiunzione di più elementi sottolineata dall'inquadratura della fotografia.
Ciò che egli mette in luce non è dell'ordine del razionale, del dicibile. Spesso è qualcosa che non si può spiegare. Tanto che le sue immagini potrebbero benissimo illustrare l'espressione popolare: «Vedere per credere» o ancora «La realtà supera la finzione».
Gli spunti della fotografia di Bernadó sono essenzialmente visivi, anche se le parole sono spesso presenti nelle sue composizioni, tra le altre quelle dei manifesti pubblicitari con i quali gioca volentieri. Ramon de España intitola un suo testo sul fotografo: «What you see is what you get»(8). La fotografia permette infatti di guardare con più attenzione il mondo, attraverso ciò che essa ne cattura. Essa amplifica l'esperienza visiva.

Se si individua un possibile legame tra il lavoro di Bernadó e una scuola documentaria britannica, il paragone si arresta al senso dello humour che è molto pronunciato nel fotografo catalano. Ma non vi è in lui alcun cinismo, né cattiveria. Se alcuni fotografi inglesi, tra cui Martin Parr è oggi il più emblematico, sviluppano uno spirito demolitore nello sguardo che rivolgono alla propria società, quello di Bernadó è divertito, sottile, leggero, mai insistente.
Si è perfino parlato di simpatia a proposito del suo lavoro sulla Spagna. Un lavoro di vasta portata dal momento che egli vi si dedica dal 2004 per concluderlo nel 2009, con la pubblicazione di un'opera dal titolo «Welcome to Espaiñ»(9).
Jordi Bernadò: Madrid - 2008, © Jordì Bernadò
Questa ortografia intrigante e impropria del nome del paese, mescolanza di inglese e spagnolo, Bernadó la scopre sotto forma di iscrizione su un container nel porto di Barcellona.
Essa annuncia immediatamente una visione sfalsata; si tratta infatti di un invito a rivisitare la Spagna in modo diverso, attraverso i temi più svariati che compongono tradizionalmente la sua cultura e la sua storia. Perché Bernadó mescola i generi: passa dalla musica ai passatempi di massa - il flamenco e il turismo alle Baleari -, dalla letteratura alla pittura - Cervantes e Goya -, dall'architettura alla storia - la Sagrada Familia e lo stretto di Gibilterra -; attraversa tutte le forme di pratiche sociali, dalla più nobile alla più popolare, dal museo del Prado alla corrida.
Accosta la cucina, il sesso e la religione. Ma in questo inventario che potrebbe apparire disordinato tanto egli vi mescola realtà diverse, tutto è minuziosamente controllato. Allo stesso modo Bernadó abbandona i dispositivi complessi, come il dittico associato alla panoramica, per una visione più diretta e che va all'essenziale. In ogni immagine, il discorso si fa più preciso, si costruisce attorno a un numero limitato di elementi, anzi attorno a un'unica idea.

«Welcome to Espaiñ» è quindi un nuovo invito al viaggio. E se la nostra guida- fotografo si proibisce di volgere in derisione la realtà, che sostiene di mostrare come si offre al suo sguardo, questo viaggio al quale ci invita segna una nuova tappa nel suo percorso: «Welcome to Espaiñ» si presenta come una traversata delle immagini della Spagna. La realtà in questione è quella dei luoghi comuni: metafora fotografica che indica gli stereotipi la cui accumulazione da parte del fotografo finisce per dare un senso di vertigine. Cliché che invadono il mondo reale e si sostituiscono a questo, un po' come la copia si sostituisce all'originale, il falso al vero, nel museo Grévin di cui Bernadó fotografa l'istituzione equivalente in Spagna. Agnès de Gouvion-Saint-Cyr scrive in introduzione all'opera recente che ha pubblicato sull'Europa(10) e che s'inserisce nella scia di «Welcome to Espaiñ»: «Nel momento in cui pensate di aver capito tutto, allora sorge un dubbio». Dietro queste immagini della Spagna che Jordi Bernadó raccoglie, si profila una riflessione sull'inquietante vacuità del mondo di oggi. E questa pratica è in un certo senso paragonabile a quella dello scrittore francese Gustave Flaubert che, nella sua epoca, aveva redatto un «Dizionario dei luoghi comuni». Agnès de Gouvion-Saint-Cyr ne cita un passaggio esemplare per le sue risonanze nell'ambito dell'arte: «Le rovine fanno sognare e donano poesia a un paesaggio».


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*) il titolo di questo testo è mutuato a una fotografia di Jordi Bernadó che mostra, in Spagna, il muro di un albergo recante il nome del fotografo. Ma come nel caso di «Welcome to Espaiñ», l'ortografia del nome proprio è storpiata, così come quella di «Etnodesign» è fantasiosa. Ciò nonostante questa bizzarra formula lascia trasparire qualcosa di esatto a proposito del lavoro del fotografo: vi è un approccio etnologico in ciò che egli propone, e il design, un certo senso della forma, non è così estraneo al suo metodo.

1) Quaderns d'Arquitectura i Urbanisme del Colegio Oficial d'Arquitectes de Catalunya
2) «Good News. Buenas Noticias». Editions Actar, Barcellona, 1998
3) George Eastman House, 1975.
4) «Jordi Bernadó. World Wide Works. 1993 – 2007». Catalogo della mostra organizzata presso il centro d' arte La Panera, Lleida, 2007
5) «Jordi Bernadó. World Wide Works. 1993 – 2007»
6) Éditions Actar, 1998 e 2002
7) Nell'ambito del programma European Eyes on Japan, organizzato dall'agenzia G.I.P. Tokyo
8) «Jordi Bernadó. World Wide Works. 1993 - 2007»
9) «Welcome to Espaiñ». Prefazione di Giovanna Calvenzi. Éditions Actar, 2009
10) «Europa». Editions Fundación Santander 2016 / Actar



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