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Obama President

Inizia la nuova era degli USA; tanti problemi creati dalla pessima amministrazione Bush sono da affrontare. Riuscirà Obama a rimettere il Paese (e il mondo) in sesto?

Di Giovanni Gelmini


Inizia l’era Obama; sarà diversa dalle precedenti?
Questo è quello che sperano gli europei, che dall’amministrazione Bush hanno ricevuto moltissimi danni. Questo spera il mondo che è arcistufo della prepotenza statunitense, peggiorata dalla sistematica informazione artefatta fornita dalla Casa Bianca e quindi della conseguente illusione che il 7° Cavalleggeri possa risolvere tutto con una carica al suono delle trombe: l’Iraq ne è stata un esempio, ma forse, e ripeto forse, solo da poco gli americani si rendono conto della vera realtà del mondo: forse ancora non se ne rendono conto, ma certamente si sono resi conto che da loro qualcosa non va: ecco il grande problema che dovrà affrontare Obama!

Da una parte la politica sviluppata dall’amministrazione Bush è stata disastrosa, dall’altra il tessuto fiero del popolo americano è alle corde e potrebbe cadere “KO” sotto il disastro economico che lo ha investito e che era da molto tempo preannunciato, ma nessuno ne aveva fatto il centro di una comunicazione alla massa.

La leadership mondiale degli USA è ormai compromessa; il “sogno americano” si è dimostrato fallace:

  • la Russia torna ad essere nazione di riferimento, grazie ai prodotti petroliferi che erano uno dei riferimenti di Bush;
  • la Cina cresce velocemente e, se la sua capacità produttiva è fortemente limitata dalla incapacità di controllare la qualità (N.d.R. come era quella italiana degli anni ’50), la sua capacità di sviluppare tecnologie è nettamente superiore a quella degli Stati Uniti;
  • l’Europa si accorge che la politica Usa la danneggia e sono sempre di più i paesi che non sono più disposti ad avere una EU succube della Casa Bianca; da una parte il fabbisogno energetico europeo è danneggiato dalla politica americana e oggi il paese di riferimento è diventato la Russia, dall’altra il mercato dell’est e asiatico, in particolare la Cina e Russia, sono sicuramente più interessanti di quello americano;
  • anche l’America del Sud, che è sempre stato un territorio di stretta influenza statunitense, anche a colpi di stato, si allontana. Ora Venezuela e Brasile guidano la lista dei paesi che osteggiano la pesante influenza americana, oltre a Cuba ovviamente;
  • la “terza guerra mondiale” iniziata da Bush può considerarsi definitivamente persa, come tute le guerre che gli Stati Uniti hanno intrapreso fuori dei territori da loro strettamente controllati: Guerra di Corea e Vietnam;
  • il conflitto Israele – Palestina non trova la via della pace;
  • il debito pubblico USA è in mano ai gialli, Cina e Giappone.

Questo è il quadro internazionale a cui Obama deve mettere mano e non è facile, le ritirate in genere si trasformano in disfatte ed oggi la ritirata per gli americani è l’unica via per sopravvivere.

Obama deve ritirasi dai tanti fronti inutilmente aperti dai suoi predecessori, ma non può farlo senza rimetterci la faccia sul fronte interno e tra poco,3 anni, riparte la campagna elettorale.

Ma l’America soffre non solo per gli insuccessi all’estero: sta vivendo la più grossa crisi economica dal 1929 ed è, tra i paesi sviluppati, quello che presenta i più gravi segni di difficoltà. Dopo il crollo di Wall Street ora c’è il crollo dei colossi industriali, quelli dell’automobile in prima fila: General Motor, Crysler e Ford. Questo non vuol dire solo milioni di disoccupati, ma vuol dire milioni di affamati, senza casa, senza assistenza sanitaria e, a causa del fallimento delle assicurazioni senza speranza di pensione. Vuol dire la sconfessione di quel sistema liberal–capitalista che qualcuno anche in Italia vorrebbe importare e per fortuna nostra i fatti accaduti l’hanno sconfessato quasi in tempo per non fare eccessivi danni.

È fuor di dubbio che la soluzione al disastro economico è al centro delle attese del popolo americano; Obama ne è ben cosciente e lo si legge bene nel discorso tenuto pochi giorni fa in cui, senza mezzi termini, ha accusato Bush e l’establishment che lo ha espresso, in particolare i finanzieri di Wall Streed, di aver provocato il disastro che lui ora deve sistemare.

La sua prima preoccupazione infatti, d’accordo con Bush, è stata quella di salvare il sistema bancario, imponendo regole. Infatti, senza un sistema che garantisca il credito e il flusso corretto del denaro, è impensabile frenare la recessione e rilanciare l’economia.
Ma il congresso non ha gradito: il pensiero liberale, prevalente in USA, non vuole l’interferenza delle stato nell’economia. Ma questo pensiero si scontra con la dura realtà delle famiglie che invece incominciano a pensare che l’intervento statale sia utile. Le tanto aberrate idee socialiste, spesso confuse con il comunismo sovietico, incominciano a prendere piede e quindi Obama avrà maggior forza ad intervenire nell’economia. Per ora i punti della sua azione sono: ridurre il carico fiscale per le famiglie a basso reddito, il 95% dei contribuenti, di 1,000€ (N.d.R. una cifra simile alla social card di Tremonti, ma che va praticamente a tutti e senza invenzioni dalla gestione costosa), dare una boccata d’ossigeno all’industria, specialmente a quella automobilistica, evitando i fallimenti catastrofici, rilanciare gli investimenti infrastrutturali e infine la produzione di energie rinnovabili.

Per ora per questo piano pensa di investire 775 milioni di dollari, ma gli economisti consigliano una cifra più alta e non troppo lontana, 1,200 milioni di dollari. È possibile, se il consenso della popolazione lo permetterà, che questa cifra venga raggiunta. Ovviamente il problema a questo punto è il disavanzo pubblico e, quindi, il rischio di inflazione. I monetaristi si allarmano, come al solito, e non vedono che l’inflazione diventa uno spettro da temere solo quando la domanda supera l’offerta e questo non è il caso ora in tutto il mondo, quello che si deve temere invece sono le conseguenze della recessione: instabilità sociale e deflazione.

Se è vero che Obama è il sogno della speranza americana di poter riprendere il “sogno”, la via che si appresta a percorrere è quella giusta: per prima cosa ridare le certezze di una vita dignitosa ai suoi elettori.

Poi viene il ruolo degli USA nel modo. Se il “sogno americano” prevede il ruolo degli Stati Uniti di diffusori della loro filosofia di vita e quindi un’investitura, quasi divina, per un’evangelizzazione liberista, questo contrasta evidentemente con filosofie di vita storiche e ben radicate nel resto del mondo e che in molti casi sono ben più avanzate di quella a “stelle e strisce”.
Non dimentichiamo che solo da pochi decenni gli Usa hanno abolito le leggi razziste e che sono uno dei paesi sostenitori della pena di morte e che non disdegna il “fai da te” nella difesa personale.
Se poi questa “azione missionaria” è affiancata dall’invasione imperialista da parte delle loro imprese, dalla insinuazione del modo di vivere di abitudini consumistiche senza motivo, dalla sollecitazione all’attività non certo piacevoli, come la prostituzione delle giovani (N.d.R. vedi Vietnam), dalla distruzione del territorio attraverso le azioni militari, non ci si può certo meravigliare se questo provochi odio e una reazione integralista che va poi ad alimentare il terrorismo.

Il comportamento degli USA nell’ultimo decennio è stato questo. Ha cercato di allargare la Nato ai paesi dell’ex impero russo, senza essere di in grado di difenderli, come si è dimostrato nel caso Georgia ed ha “invaso” mezza Asia, senza riuscire a portare alcun vantaggio, solo distruzione. Queste manie di grandezza si pagano e alla fine l’11 settembre si può considerare un pesante avvertimento di cosa può succedere se la Casa bianca proseguisse in questa politica di invasione del mondo. Bush nel suo ultimo incontro con la stampa ha lanciato il suo ultimo segnale di paura: dobbiamo attenderci un nuovo attacco terroristico sul nostro territorio. Cosa certamente vera se il comportamento Usa proseguisse nell’arrogante prevaricazione delle realtà locali.

Ora Obama si trova ad affrontare questa situazione: ha promesso di chiudere immediatamente Guantanamo, di ritirare le truppe dall’Iraq. Buoni propositi, ma che per essere realizzati necessitano anche il ripristino di situazioni di sicurezza, cosa non facile.
In effetti un modo c’è: far tacere le armi e ridare fiato alla politica, alla mediazione.
La prima cosa è aprire un dialogo con l’Iran. Tutte le sommosse hanno uno sponsor e se si toglie l’interesse dello sponsor a pagare i costi delle sommosse queste si esurisono in manifestazioni quasi “pacifiche”. Purtroppo però c’è chi, quando la pace sembra possibile, fa scattare forte l’attività del terrorismo e le azioni di guerriglia. Questo problema va affrontato senza entrare nella solita spirale della violenza.

Gli Stati Uniti devono prendere atto della situazione politica attuale. Se 10 anni fa tutti sarebbero stati disponibili ad accettare la supremazia USA, 10 anni di insuccessi e una crisi mondiale da loro indotta, hanno cambiato sostanzialmente il quadro. Inoltre l’ONU, luogo che era stato pensato per dirimere le controversie internazionali, è ora ridotto a “bar”, dove si parla senza produrre nulla: troppe sono le possibilità di veto, troppe sono le condanne a cui non è mai seguita una reale applicazione, vedi il caso di Israele.

Obama si trova quindi ad affrontare una situazione di politica estera difficilissima, ma ha un grosso vantaggio: l’opinione pubblica americana si preoccupa quasi esclusivamente delle ferite inflitte dalla crisi economica. Se riesce a cambiare la rotta nei primi 100 giorni non dovrebbe avere poi difficoltà a proseguire, sempre che, nello stesso tempo, si possa vedere una uscita dal baratro nero in cui sono caduti gli americani. Non si deve dimenticare che c’è una stretta connessione tra la soluzione della crisi economica e una nuova stabilità geopolitica.

Un grosso problema per lui è non assecondare i “signori della guerra”, quelli che su tutti i conflitti sparsi nel modo lucrano; e sono potenti. Sono loro, con altri lobbisti, che guadagnano dall’isolamento del Presidente dal mondo reale, cosa che è stata particolarmente evidente nell’epoca Bush.

Speriamo che il “Blackberry”, che Obama non vuole lasciare, sia sufficiente a tenerlo collegato alla realtà.

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