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I racconti del novecento

Il cibo e la guerra. I miei ricordi

Vivevo in una famiglia media borghese, non c’erano grandi problemi, ma la guerra ne ha portati alcuni

Di Giovanni Gelmini

Brutta cosa la guerra, la mia infanzia l’ha vissuta nei giorni peggiori, quando la paura era dominante: bombardamenti, insicurezza perché non sapevi cosa poteva succederti anche solo girando per una strada, parenti al fronte o prigionieri, di cui si sapeva pochissimo, ma, oltre a tutto questo, sappiamo che c’era anche il problema di trovare il necessario per mettere insieme il pranzo e la cena; il cibo era razionato con le tessere e quello che si poteva avere con quelle era insufficiente.

I miei ricordi, rafforzati dai racconti di mia madre, sono ovviamente solo della mia famiglia, che devo dire fu abbastanza fortunata, altri hanno certamente ricordi diversi, ma credo che ci sia un denominatore comune a tutti: la fantasia per superare i problemi gravissimi causarti dalla guerra. Anche alla “Casa Madre”, come era chiamata la nostra casa, i problemi c’erano, ma in campagna il cibo si trovava e mio padre era spesso in giro tra le campagne per comprare il vino per la Ditta; c’erano anche gli autisti che giravano la provincia a consegnare e fiaschi e damigiane, e che anche loro contribuivano a garantire un flusso di cibarie.

Il corridoio della casa aveva all’inizio una rientranza piuttosto grande, quel vano venne riempito di sacchi di gustose patate di Carona, che furono una base importante. Quando le patate finirono, divenne il mio antro e fu usato anche per il presepio natalizio.


Uno dei grossi problemi era la mancanza del sale.

In un primo momento vennero usati i Dadi Maggi (sale e estratto di carne), ricordo ancora in grande recipiente di metallo nel sottoscala con scritto “Dadi Maggi”. Questi andavano bene per molti piatti, ma di certo non per tutti: pensate ad una polenta ai dadi per brodo!

Il problema trovò una soluzione tramite una collaborazione con il nostro medico e un provetto chimico. Il medico, procurava i Sali Tamerici di Montecatini (purgativi), il dottore chimico provvedeva a separare il sale puro e tutti così avevano il necessario a cucinare piatti saporiti senza problemi.

Un caso particolare fu quello del Coniglio Giobè (coniglio bigio, ma io ho sempre invertito le lettere nelle parole e ancora adesso lo faccio scrivendo).

Un giorno mio padre, in uno dei suoi viaggi nella campagna, ebbe la possibilità di acquistare un bel coniglio tutto grigio e pensò: “Se lo faccio ammazzare qui chissà come arriva a casa”. Allora decise di mandarlo a Bergamo vivo con l’automezzo della ditta. Lui doveva fermarsi ancora qualche giorno per proseguire con gli acquisti.

Il coniglio arrivò, ma nessuno ebbe il coraggio di ucciderlo, così entrò nella vita di famiglia come un gatto o un cane.

Quando si alzava la sorella di mia madre, Giobé faceva una danza attorno ai suoi piedi; girava e girava e per esprimere la sua felicità faceva un cerchio di pipì.
Con me si lasciava fare tutto e non aveva paura delle mie manine.

Il tempo passava e tutto sembrava andare per il meglio, quando un mattino mia madre si accorse che le frange del copriletto dello Zio Amedeo, il fratello di mia madre, erano state mangiate dal coniglio. Questo decretò la sua fine, il coniglio fu portato via e alla domenica successiva ci fu coniglio con polenta.

Questi i miei ricordi


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